martedì 21 aprile 2015

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

Sono un architetto pentito - cap. 5

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

  Mentre le Expo’ planetarie sono state la vetrina di tante innovazioni tecnologiche nell’edilizia (soprattutto la smontabilità doveva essere la caratterisitica principale, data la funzione provvisoria dell’oggetto architettonico), e soprattutto nei suoi monumenti, le Olimpiadi sono state l’occasione per la riqualificazione urbana e territoriale delle città ospitanti, se non di tutto il paese.
  Facciamo un po’ di “revival” nostrano, tornando ai mitici anni ‘60.
  Le Olimpiadi del 1960 furono per la Capitale una grande occasione per riqualificarsi urbanisticamente (e contemporaneamente, come vedremo, per stravolgerne e ribaltare le prospettive ideologiche della scienza e della cultura urbanistica di allora, che erano alla base e struttura portante per il Piano Regolatore allora in fieri).
  Vi erano due ampie aree urbane, tutte e due nate nel ventennio e di impostazione architettonica  imperiale, eroica e fascista, già qualificate per l’immensità degli spazi e delle attrezzature sportive, nonché per la loro posizione topica: a nord il Foro Italico, fino a pochi anni prima Foro Mussolini, con ben tre stadi, (l’Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Flaminio nelle vicinanze), e con la sede del C.O.N.I., tempio sacro dello sport.


LO STADIO OLIMPICO foto d’epoca
  A sud l’EUR, quasi una moderna new-town alla estrema periferia, proiettata verso il mare, con le sue strutture già realizzate per una Expò Universale mai realizzata “causa guerra intervenuta”; quartiere  che venne strutturalmente incrementato a mezzo di un impianto di paesaggio urbano quale il laghetto artificiale (sede allora anche di fantasmagorici giochi d’acqua, di colori e di musica, impianto tecnico ormai in disuso, come spesso avviene non si sa perchè); il velodromo (anch’esso presto in disuso, ed ora distrutto per implosione causata, comprese tonnellate di eternit, da cui i processi per disastro colposo), gli impianti ginnici delle Tre fontane, ed il Palazzo dello Sport, (oggi Palalottomatica, melanconicamente in versione non più sportiva), posizionato su una collinetta di sfondo rispetto al lago, con una visione al limite dell’ufologico, da “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.


IL PALASPORT IN COSTRUZIONE

 Tra queste due grandi Emergenze urbane fu creato, interno alla città, un asse di collegamento veloce nord-sud, la via Olimpica, tutto ad ovest rispetto il centro storico. Ed in tal modo tale grande infrastruttura permise negli anni seguenti il traslarsi di tante attività direzionali, e di potere economico e politico, dal centro storico verso la qualificata periferia sud rappresentata dall’EUR.
  Tutto ciò era di fatto uno stravolgimento del tormentone di allora, di quanto cioè predicato da tanti Mostri sacri dell’Urbanistica, da Piccinato a Zevi, da Quaroni a Mario Fiorentino: l’Asse Attrezzato.
  Fin dagli anni cinquanta l’asse a est della città veniva indicato come la direttrice dominante per l’espansione delle Attività Direzionali di Roma.

  L’idea portava ad individuare nel P.R.G. (Piano Regolatore Generale) del 1962, definitivamente approvato nel ’65, una vasta area a est del centro storico destinata prevalentemente a funzioni direzionali e al terziario, quale Sistema Direzionale Orientale: e tale struttura portante della città, avrebbe dovuto qualificarla nei contenuti, e decongestionarla dal traffico a mezzo di una nuova forma di decentramento ad est.


PROGETTO PER L’ASSE ATTREZZATO DI ROMA 

  La via Olimpica, invece, offriva un asse di scorrimento veloce ad ovest del centro storico, e di congiunzione a sud con la “New Town” Eur, quasi novella città satellite della Capitale, destinata a diventare al più presto il vero e nuovo Centro Direzionale urbano e metropolitano, regionale e nazionale; e nemmeno la sua successiva continuazione e congiunzione con la Tangenziale Est, che la raccordava fino a S. Giovanni, ed in seguito, attraverso via Marco Polo e parte della Cristoforo Colombo, di nuovo fino all’Eur, mitigava lo spostamento di traffico ed attività ormai tendenti a spostarsi all’estremo sud della città, all’Eur verso il mare.
  D’altronde la Tangenziale Ovest, ben lungi dall’essere un Asse Attrezzato, risulta essere soltanto un mediocre tentativo di viabilità veloce, troppo spesso congestionata da un eccesso di traffico.
   E così, per “colpa” di una Olimpiade, finirono miseramente tutte le più ampie velleità Urbanistiche di quella cultura che ha fatto storia, sì, ma senza nulla realizzare:
  infatti, come di tante altre cose, di “Asse Attrezzato”, dopo tanto discutere e sognare, non se ne è più parlato.
  Ma di Villaggio Olimpico sì, perché lo abbiamo sempre sotto gli occhi, passando dal viadotto di Corso Francia: fu costruito negli anni ‘58 – 59 per alloggiare gli atleti olimpici, su progetto redatto da mostri sacri quali gli architetti Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco, e, dulcis in fundo, il grande Luigi Moretti le firme autorevoli ed il tema  sui generis hanno rivestito di leggenda un’organismo ricco di pulsazioni irrisolte: addirittura, riconosciuto come uno dei migliori quartieri di edilizia pubblica realizzati a Roma, il progetto del Villaggio Olimpico, vince nel 1961 il premio regionale IN/ARCH (!!!)

  L’hanno paragonato all’Unité d'Habitation di Marseille, realizzata da Le Corbusier nel lontano 1946 (!!!) (vedi capitolo 3):


  Villaggio Olimpico di Roma          

Unité d’habitation de marsille

  questa non era certo un “mostro di bellezza”, ma sicuramente era il “manifesto” delle più originali teorie urbanistiche ed architettoniche della ricostruzione; idee allora – nel 1946, cioè nell’immediato dopo guerra – rivoluzionarie e all’avanguardia, ma ormai obsolete nel 1958 ben dodici anni dopo, anche perché le idee espresse dall’Architettura Razionalista di Le Corbusier non hanno subito la dovuta evoluzione della specie nelle direzioni già insite nelle proposte dell’Architettura Razionalista, da questa suggerite e non solo in embrione.

  Vediamo quali erano tali intuizioni rivoluzionarie.

   1) nell’Unità di Abitazione di Marsiglia i 337 appartamenti, con semplice finzione di facciata, appaiono essere stati costruiti in serie e poi assemblati, a testimoniare l’idea di una casa intesa quale una “macchina per abitare”, (adeguandosi al periodo storico rivoluzionato dalla meccanizzazione e dalla proliferazione delle macchine), nella quale possono abitarvi fino a 1500 persone, un piccolo quartiere.
  Tali concetti, (l’assemblabilità e la trasformabilità, quindi una potenziale produzione in serie) non vengono in alcun modo sviluppati, anzi nel Villaggio Olimpico vengono solo “copiati” in una versione ancora soltanto di facciata.

  2) l’adozione nell’attacco a terra di un piano pilotis a Marsiglia suggeriva, nella discontinuità con il terreno, la continuità con funzioni sociali o commerciali, con percorsi attrezzati.  
  Nel Villaggio Olimpico rimane la mera discontinuità con il terreno, lasciando ad un facile processo di degrado questi spazi pubblici non utilizzati, (se addirittura non al rischio di aggressioni ed azioni malavitose negli ampi spazi senza limiti ottici).

   3) A Marsiglia l’arretramento dei pilastri rispetto al filo dei solai consente uno sviluppo della facciata indipendente dal resto dell’appartamento e da ritmi strutturali, e permette l’utilizzo di finestrature a nastro, capaci di scorrere a piacere lungo la parete, e di fornire un’illuminazione personalizzata.
  Nel Villaggio Olimpico invece, nonostante tale arretramento, il prospetto è ritmato in una sequenza a ripetizione che può ripetersi per chilometri senza soluzioni di continuità.

  4) Al settimo e ottavo piano, la cosa forse più rivoluzionaria a Marsiglia, sono presenti una parte di servizi urbani essenziali (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare il salto dimensionale tra il singolo edificio e la città: il primo viene proposto come semplice sottomultiplo della seconda.

  Il lastrico solare è trattato come un naturalistico Roof Garden (giardino tra le terrazze), rifinendo nel verde il paesaggio dello Sky-line (linea del cielo) del manufatto oggetto dell’intervento umano.       
    Tutto ciò tende a ridurre ai minimi termini la  distinzione tra urbanistica e architettura, tra città ed edificio, con un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa, intesa come cellula di un insieme, si estende via via all'edificio, al quartiere, alla città, all'intero ambiente costruito.

  A Roma, invece, siamo di fronte ad un piatto lastrico solare, che non è “portatore di servizi urbani”, e la cui unica funzione è coprire il fabbricato. In realtà con il Villaggio di Roma siamo quindi ben lontani dalla concretizzazione di quanto proclamato nel “manifesto razionalista” della Unité d’Habitation, ma siamo di fronte ad una brutta copia conforme di una cosa già di per sé non eccezionalmente bella (ma che comunque aveva al suo interno gli embrioni di eccezionali innovazioni, embrioni forse ancora oggi non sviluppati):

  peccato, poteva essere una grande occasione, ed invece siamo di fronte ad un’ennesima occasione mancata, se non proprio ad un “mostro architettonico”.

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