martedì 21 aprile 2015

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

Sono un architetto pentito - cap. 5

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

  Mentre le Expo’ planetarie sono state la vetrina di tante innovazioni tecnologiche nell’edilizia (soprattutto la smontabilità doveva essere la caratterisitica principale, data la funzione provvisoria dell’oggetto architettonico), e soprattutto nei suoi monumenti, le Olimpiadi sono state l’occasione per la riqualificazione urbana e territoriale delle città ospitanti, se non di tutto il paese.
  Facciamo un po’ di “revival” nostrano, tornando ai mitici anni ‘60.
  Le Olimpiadi del 1960 furono per la Capitale una grande occasione per riqualificarsi urbanisticamente (e contemporaneamente, come vedremo, per stravolgerne e ribaltare le prospettive ideologiche della scienza e della cultura urbanistica di allora, che erano alla base e struttura portante per il Piano Regolatore allora in fieri).
  Vi erano due ampie aree urbane, tutte e due nate nel ventennio e di impostazione architettonica  imperiale, eroica e fascista, già qualificate per l’immensità degli spazi e delle attrezzature sportive, nonché per la loro posizione topica: a nord il Foro Italico, fino a pochi anni prima Foro Mussolini, con ben tre stadi, (l’Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Flaminio nelle vicinanze), e con la sede del C.O.N.I., tempio sacro dello sport.


LO STADIO OLIMPICO foto d’epoca
  A sud l’EUR, quasi una moderna new-town alla estrema periferia, proiettata verso il mare, con le sue strutture già realizzate per una Expò Universale mai realizzata “causa guerra intervenuta”; quartiere  che venne strutturalmente incrementato a mezzo di un impianto di paesaggio urbano quale il laghetto artificiale (sede allora anche di fantasmagorici giochi d’acqua, di colori e di musica, impianto tecnico ormai in disuso, come spesso avviene non si sa perchè); il velodromo (anch’esso presto in disuso, ed ora distrutto per implosione causata, comprese tonnellate di eternit, da cui i processi per disastro colposo), gli impianti ginnici delle Tre fontane, ed il Palazzo dello Sport, (oggi Palalottomatica, melanconicamente in versione non più sportiva), posizionato su una collinetta di sfondo rispetto al lago, con una visione al limite dell’ufologico, da “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.


IL PALASPORT IN COSTRUZIONE

 Tra queste due grandi Emergenze urbane fu creato, interno alla città, un asse di collegamento veloce nord-sud, la via Olimpica, tutto ad ovest rispetto il centro storico. Ed in tal modo tale grande infrastruttura permise negli anni seguenti il traslarsi di tante attività direzionali, e di potere economico e politico, dal centro storico verso la qualificata periferia sud rappresentata dall’EUR.
  Tutto ciò era di fatto uno stravolgimento del tormentone di allora, di quanto cioè predicato da tanti Mostri sacri dell’Urbanistica, da Piccinato a Zevi, da Quaroni a Mario Fiorentino: l’Asse Attrezzato.
  Fin dagli anni cinquanta l’asse a est della città veniva indicato come la direttrice dominante per l’espansione delle Attività Direzionali di Roma.

  L’idea portava ad individuare nel P.R.G. (Piano Regolatore Generale) del 1962, definitivamente approvato nel ’65, una vasta area a est del centro storico destinata prevalentemente a funzioni direzionali e al terziario, quale Sistema Direzionale Orientale: e tale struttura portante della città, avrebbe dovuto qualificarla nei contenuti, e decongestionarla dal traffico a mezzo di una nuova forma di decentramento ad est.


PROGETTO PER L’ASSE ATTREZZATO DI ROMA 

  La via Olimpica, invece, offriva un asse di scorrimento veloce ad ovest del centro storico, e di congiunzione a sud con la “New Town” Eur, quasi novella città satellite della Capitale, destinata a diventare al più presto il vero e nuovo Centro Direzionale urbano e metropolitano, regionale e nazionale; e nemmeno la sua successiva continuazione e congiunzione con la Tangenziale Est, che la raccordava fino a S. Giovanni, ed in seguito, attraverso via Marco Polo e parte della Cristoforo Colombo, di nuovo fino all’Eur, mitigava lo spostamento di traffico ed attività ormai tendenti a spostarsi all’estremo sud della città, all’Eur verso il mare.
  D’altronde la Tangenziale Ovest, ben lungi dall’essere un Asse Attrezzato, risulta essere soltanto un mediocre tentativo di viabilità veloce, troppo spesso congestionata da un eccesso di traffico.
   E così, per “colpa” di una Olimpiade, finirono miseramente tutte le più ampie velleità Urbanistiche di quella cultura che ha fatto storia, sì, ma senza nulla realizzare:
  infatti, come di tante altre cose, di “Asse Attrezzato”, dopo tanto discutere e sognare, non se ne è più parlato.
  Ma di Villaggio Olimpico sì, perché lo abbiamo sempre sotto gli occhi, passando dal viadotto di Corso Francia: fu costruito negli anni ‘58 – 59 per alloggiare gli atleti olimpici, su progetto redatto da mostri sacri quali gli architetti Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco, e, dulcis in fundo, il grande Luigi Moretti le firme autorevoli ed il tema  sui generis hanno rivestito di leggenda un’organismo ricco di pulsazioni irrisolte: addirittura, riconosciuto come uno dei migliori quartieri di edilizia pubblica realizzati a Roma, il progetto del Villaggio Olimpico, vince nel 1961 il premio regionale IN/ARCH (!!!)

  L’hanno paragonato all’Unité d'Habitation di Marseille, realizzata da Le Corbusier nel lontano 1946 (!!!) (vedi capitolo 3):


  Villaggio Olimpico di Roma          

Unité d’habitation de marsille

  questa non era certo un “mostro di bellezza”, ma sicuramente era il “manifesto” delle più originali teorie urbanistiche ed architettoniche della ricostruzione; idee allora – nel 1946, cioè nell’immediato dopo guerra – rivoluzionarie e all’avanguardia, ma ormai obsolete nel 1958 ben dodici anni dopo, anche perché le idee espresse dall’Architettura Razionalista di Le Corbusier non hanno subito la dovuta evoluzione della specie nelle direzioni già insite nelle proposte dell’Architettura Razionalista, da questa suggerite e non solo in embrione.

  Vediamo quali erano tali intuizioni rivoluzionarie.

   1) nell’Unità di Abitazione di Marsiglia i 337 appartamenti, con semplice finzione di facciata, appaiono essere stati costruiti in serie e poi assemblati, a testimoniare l’idea di una casa intesa quale una “macchina per abitare”, (adeguandosi al periodo storico rivoluzionato dalla meccanizzazione e dalla proliferazione delle macchine), nella quale possono abitarvi fino a 1500 persone, un piccolo quartiere.
  Tali concetti, (l’assemblabilità e la trasformabilità, quindi una potenziale produzione in serie) non vengono in alcun modo sviluppati, anzi nel Villaggio Olimpico vengono solo “copiati” in una versione ancora soltanto di facciata.

  2) l’adozione nell’attacco a terra di un piano pilotis a Marsiglia suggeriva, nella discontinuità con il terreno, la continuità con funzioni sociali o commerciali, con percorsi attrezzati.  
  Nel Villaggio Olimpico rimane la mera discontinuità con il terreno, lasciando ad un facile processo di degrado questi spazi pubblici non utilizzati, (se addirittura non al rischio di aggressioni ed azioni malavitose negli ampi spazi senza limiti ottici).

   3) A Marsiglia l’arretramento dei pilastri rispetto al filo dei solai consente uno sviluppo della facciata indipendente dal resto dell’appartamento e da ritmi strutturali, e permette l’utilizzo di finestrature a nastro, capaci di scorrere a piacere lungo la parete, e di fornire un’illuminazione personalizzata.
  Nel Villaggio Olimpico invece, nonostante tale arretramento, il prospetto è ritmato in una sequenza a ripetizione che può ripetersi per chilometri senza soluzioni di continuità.

  4) Al settimo e ottavo piano, la cosa forse più rivoluzionaria a Marsiglia, sono presenti una parte di servizi urbani essenziali (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare il salto dimensionale tra il singolo edificio e la città: il primo viene proposto come semplice sottomultiplo della seconda.

  Il lastrico solare è trattato come un naturalistico Roof Garden (giardino tra le terrazze), rifinendo nel verde il paesaggio dello Sky-line (linea del cielo) del manufatto oggetto dell’intervento umano.       
    Tutto ciò tende a ridurre ai minimi termini la  distinzione tra urbanistica e architettura, tra città ed edificio, con un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa, intesa come cellula di un insieme, si estende via via all'edificio, al quartiere, alla città, all'intero ambiente costruito.

  A Roma, invece, siamo di fronte ad un piatto lastrico solare, che non è “portatore di servizi urbani”, e la cui unica funzione è coprire il fabbricato. In realtà con il Villaggio di Roma siamo quindi ben lontani dalla concretizzazione di quanto proclamato nel “manifesto razionalista” della Unité d’Habitation, ma siamo di fronte ad una brutta copia conforme di una cosa già di per sé non eccezionalmente bella (ma che comunque aveva al suo interno gli embrioni di eccezionali innovazioni, embrioni forse ancora oggi non sviluppati):

  peccato, poteva essere una grande occasione, ed invece siamo di fronte ad un’ennesima occasione mancata, se non proprio ad un “mostro architettonico”.

venerdì 17 aprile 2015

CAPITOLO 4 - Sono un architetto pentito

4 - ENTRARE NELLA STORIA... SI PUO'...
 
   In situazioni emergenti (ad esempio le Expò) Architetti ed Ingegneri fin dal lontano 1851 hanno creato delle pagine progettuali di alta tecnologia.
   Quindi pensare che una Edilizia Hi-tech possa esistere, si può...
  non è fantascienza, i presupposti per la fuoriuscita dell'Edilizia dalla Preistoria ci sono, le cognizioni tecniche pure, .... , ma la volontà di utilizzare l'hi-tec in produzione di massa, per migliorare l'habitat, renderlo organico e flessibile, riporoducibile, trasformabile, smontabile e rimontabile (quasi come un manufatto arredo dell'Ikea), quella volontà... no, ancora non c'è; anche se "nulla hosta" perchè tale volontà ci sia. 

  Vedi il Crystal Palace dell'Expò del 1.851 (!!!): a fine Fiera, fu smontato, e rimontato in altro sito con qualche aggiunta sostanziale ma con le medesime caratteristiche, come si vede nelle foto d'epoca qui riprodotte. 




   Come nell'Habitat di Moshe Safdie all'Expò di Montreal nel 1967:
  "Un esempio di architettura forse difficile da digerire al primo impatto, ma  flessibile, trasformabile, aggiungibile, decurtabile; un "organismo in fieri" con una tipologia di immagine che affonda le sue radici nella gasba algerina (era attuale ed emergente la Battaglia di Algeri, film del 66 di Gillo Pontecorvo sui dieci anni di lotta di liberazione portati avanti dal F.L.N. - Fronte Nazionale di Liberazione).




   Un'architettura veramente organica, pur nel cubismo di stampo razionalista delle sue forme, organica in quanto organismo come vivente nella sua adattabilità nel tempo e nello spazio alle esigenze degli abitanti  suoi fruitori.
  Le capsule appaiono applicate alla struttura, aggiunte per aggregazione, per successivo posizionamento, sottintendendo e suggerendo una potenziale flessibilità, accrescibilità e smontabilità, pur non avendone le vere caratteristiche tecniche, in quanto ancora l’evoluzione tecnologica ancora non lo permetteva (ma vi erano vicini, soprattutto morfologicamente). 

  Come nel Padiglione Italiano all'Expò di Osaka, nel 1970, dello studio Valle, dove viene completamente superato il concetto base di ogni struttura, fatto di pilastri e travi, tamponature e solai, tutti rigorosamente perpendicolari, verticali ed orizzontali.  
  Erano anni di grande ricerca. Era la vittoria del "trenta gradi" sull'angolo retto.
  Una vittoria che doveva avvenire, nel mondo del 68 quella sensazione era nell'aria, il “trenta-sessanta” doveva nascere, (come il Messia doveva nascere, chiunque esso potesse essere, nell'anno zero): lo studio Valle era all'avanguardia per una progettazione rivoluzionaria.
  Nel 1972 ospitava al suo interno una compagine dello studio Tange, il più noto architetto giapponese (ed io partecipai per quello studio alla stesura della Relazione Tecnica per il piano particolareggiato di Librino, quartiere satellite di Catania).




    In edilizia la storia è ancora fantascienza, e la fantascienza  dell'altro ieri è la scienza di ieri. L'utopia di ieri è la filosofia di oggi.

  E' di un anno prima rispetto ad Osaka, del 1969, il Progetto/esame (architettura degli interni) di un Cinema a Via Cola di Rienzo redatto dal sottoscritto con altri tre colleghi studenti: la visione preveggente di un passato prossimo è la descrizione, secondo l'immaginario collettivo, della realtà attuale.


   Ma quello che progettavamo trentacinque anni fa, negli anni 60, non era il frutto di pura fantasia onirica, o di elucubrazioni psichedeliche.

  Era frutto di meditazione tecnica, di innovazioni di ingegneria strutturale, di architettura pensata nello spazio e nel "fieri" del tempo; e continuiamo a precisare che,  in contemporanea, persone che non si conoscevano, che non avevano modo di attingere idee ed immagini dall'altro, di diversa leva ed estrazione (l'arch. Valle, già allora affermato ai più alti livelli, ed il nostro gruppo di studenti di Architettura, da poco nato e formato da allora ragazzi), progettavano, per organismi diversi e dislocati agli antipodi del mondo:


 volumi e  strutture con incredibili analogie, tutte apparentabili ad une edilizia che poteva apparire di fantascienza:
   ma fantascienza non era.
  Il padiglione italiano all'expò di Osaka, ed il nostro cinema progettato per un lotto in via Cola di Rienzo a Roma, sono apparentati da una simile tipologia di pensiero.

 PADIGLIONE ITALIANO A OSAKA


CINEMA IN VIA COLA DI RIENZO

   Ma torniamo alle Expò, ed andiamo indietro nel tempo.

   1889 - PARIGI - TORRE EIFFEL
   E' un inno alla tecnica dell'acciaio, ma con la rinuncia al concetto di "funzione", se non quella di "monumento" irripetibile.
  Una precisazione tecnica, che forse ne diminuisce la caratteristica di capolavoro universale di ingegneria (ma questa mia è forse una deformazione professionale da architetto): i quattro archi di ingresso sopra la base, non sono archi "portanti", come vorrebbero apparire all'occhio del visitatore inesperto; anzi, sono archi "portati" dai piloni in diagonale retta, facendolo diventare un "falso strutturale" e quindi anche un "falso ideologico di progettazione"; il tutto senza togliere nulla alla maestosità dell'opera.
  Nella foto d’epoca si vede la vera struttura portante in costruzione, e non ci sono ancora gli archi.


 

venerdì 10 aprile 2015

3 - SIAMO ANCORA NELLA PREISTORIA

  Uscire dalla preistoria non è difficile.

  Quando è stata inventata la ruota, la ruota era già stata inventata: ma veniva usata non come mezzo di locomozione, ma quale mola di tornio per frantumare cereali. Il passo da fare era piccolo per giungere all'intuizione che, oltre all'asino o all'uomo che spingeva il palo della mola, la ruota poteva essere abbinata al cavallo o al bue, per correre ed arare: ma ci vollero circa 10.000 anni, dal 15.000 al 5.000 circa avanti Cristo.
  E così in edilizia: l'industrial-design, la progettazione per attività di hi-tec, l'hi-fi, il web, già usano da molti decenni l'impiantistica integrata e stampata, l'elettronica, la cibernetica; da tempo usano criteri di flessibilità, di trasformabilità, di organicità, di riproducibilità, di stampabilità; e sperimentano nuovi materiali ormai collaudati dal tempo come leghe al tungsteno o al molibdeno, l'acciaio inox, fibre di carbonio, fibre ottiche, comandi vocali, telecomandi.

  L'edilizia no: in edilizia si impasta, a mano o con mezzi meccanici antidiluviani (quasi come la mola trainata dall'asino);
  in edilizia la porta di ingresso si inchiava a dieci mandate, con chiavi di sicurezza sempre più robuste, sempre più simili a quelle medioevali tornite con tondo del 10; 
  in edilizia si tirano giù le tapparelle, perché non si riesce a schermare la luce con sistemi automatici, per non dire ottici, che sarebbe fantascienza; le finestre, tranne che in qualche grande architettura (quella rappresentativa e per classi abbienti), sono in piano, il vetro è trasparente.

  In qualsiasi utilitaria, invece e già da tanto tempo, il vetro è leggermente arcuato con curva aerodinamica, leggermente fumè, sfumato dalla parte alta verso il basso, spesso anche fotosensibile a gradazione bilanciata a seconda della luce.

  Nella casa gli oggetti di arredo si aggiungono, si posano sopra al pavimento o si sospendono a parete con staffe pericolose o destinate a strapparsi dal muro; 
    nell'automobile questo avviene solo appena nasce un nuovo optional: chi non aveva il Tom-Tom, se l'è comprato, e l'ha dovuto mettere appeso, a ventosa più o meno autoreggente, ma sempre destinata a cadere; ma questo per poco; subito sono nate le automobili di nuova generazione, ed il Tom-Tom si è integrato nel cruscotto, come la radio, la TV, il quadro comando, il tutto sempre con disegno accattivante e cruscotto in legno di radica.

  Ben diverso dal quadro elettrico di un appartamento, che si mette regolarmente dietro la porta di ingresso, in maniera che quando si entra non si possa vedere, perché osceno.

  Unica eccezione dell'ultima ora, la televisione al plasma, ultrapiatto, che facilmente si integra nel muro, contornato da altri arredi (ma dobbiamo parlare dei fili?):
  ma è comunque aggiunto, non fa parte della struttura della casa, la miriade di fili lo debbono raggiungere da fuori in un ammasso informe di cavi male arrotolati ed intrecciati, anche perché se ben arrotolati farebbero "effetto solenoide" ed il segnale avrebbe a risentirne;
  e quanti sono quei fili! quello di rete elettrica con relativo trasformatore, le antenne (ora sia satellitare che terrestre), il cavo dei decoder (Sky e satellitare), il cavo del mangiacassette, il cavo del lettore DVD, la rete del computer, i cavi delle casse e del sistema surround... al massimo li copriamo con un copri-cavo Meliconi
  purtroppo, siamo ancora nella preistoria!

  Uscire dalla preistoria in edilizia non è facile.

  Sarebbe facile, in quanto non vi sono particolari impedimenti tecnologici: le cognizioni tecniche ci sarebbero, ma vengono utilizzate per tutte le altre branchie dello scibile umano, ma non per l'edilizia.
  E questo per mancanza di ricerca applicativa, di innovazione dei cantieri, di attenzione imprenditoriale alla materia; in pratica, riassumendo, di cultura degli addetti ai lavori, compresi ovviamente i tecnici, architetti o ingegneri che siano.
   Si, difetto di cultura!!!

  Gli architetti tendono a quella progettazione da "numero uno", a quel "o famo strano" di verdoniana memoria: a quelle forme irripetibili, e spesso invivibili, poco funzionali e mal funzionanti, troppo belle per essere vere, troppo astrali per essere nella storia, non riproducibili perchè "l'arte deve essere una", deve essere come la moneta: " unica":

   Montesano (ai tempi dell'introduzione dell'euro, in un celebre  monologo del suo personaggio “vecchietto senza dente davanti”, che fischia sputando dal suo spazio interdentale) viene catapultato da un camion della spazzatura direttamente in discarica, in perfetto tema di romanità;  tira fuori dalla tasca la sua ultima diecimila lire, a lenzuolo, ormai scaduta, e declama: "ma non capisco proprio perchè tutti vogliono sta' moneta unica: io da mo' che cell'ho! eccola qui, unica, ma da mòòòò...!!!"

  E così gli Architetti progettano monumenti, per passare alla storia, e non si curano dei problemi dell'habitat, dei milioni di vani di cui la gente ha bisogno, delle quantità di servizi e di verde da cui il quartiere dipende.
  Si fanno grattacieli per industrie e grandi imprese, per centrali del potere; si fanno "nuvole" da esposizione per abbacinare visitatori da esposizione (tema molto attuale oggi in Italia, vista la onorata vittoria di Milano per l'Expò del 2.015).

  Invece quando si passa al residenziale, apriti cielo
  Serpentone di Corviale: due palazzi uno di fronte all’altro, lunghi un Kilometro di prospetto, per nove piani di altezza, senza un balcone, con ballatoi lunghissimi per 1.200 appartamenti, di un fior fiore di Architetto, pezzo da novanta  come Mario Fiorentini, e Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Giulio Sterbini e Michele Valori:
  peggio di Guantanamo!


   Morale N. 1: gli interventi PEEP (edilizia economica e popolare) sono stati una grande occasione perduta, molto per  colpa degli Architetti, anche se non solo.
   Serpentone di Spinaceto: stesso discorso, fate voi.
  Morale N. 2: quando nascono, ai bambini chiedetegli subito cosa vogliono fare da grandi; se dicono "l'Architetto", sapete Voi cosa dovete fare.


  “Va sventato subito l'equivoco che il Corviale – e lo Spinaceto - sia qualcosa come un'unità di abitazione (di Marsiglia, progettata da Le Corbusier):
  Corviale si pone proprio al contrario dell'Unità di Abitazione, che è stata pensata come elemento ripetitivo, come organismo che viene studiato nella sua complessità e funzionalità e può essere ripetuto.
  Il Corviale invece, nasce come un unicum per quel sito e per questa città di Roma”
  L’Unité d'Habitation de Marseille, del 1.946 (!!!) (e non del 2.500) rappresenta un nuovo modo di costruire la città, quasi come se i moduli – fino a 1.500 persone - fossero stati costruiti in serie in stabilimento e poi assemblati, quasi una “macchina per abitare”.
  Lunga 165 metri, larga 24 metri e alta 56 metri, evoca la tematica del piroscafo urbano ancorato in un parco.
  Laboratorio per un nuovo "sistema abitativo", la “Cité Radieuse ospita” 337 appartamenti di 23 tipi diversi, i quali offrono altrettanti alloggi confortevoli per 1-10 persone: l'appartamento "tipo" è pensato per 4 persone.

  “Ogni unità abitativa è del tipo "duplex", cioè disposto su due livelli e una scala interna. Gli ingressi sono disposti lungo un corridoio-strada situato ogni due piani. Al settimo e ottavo piano sono presenti una parte dei servizi generali necessari alla popolazione (asilo nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare, secondo la teoria di Le Corbusier, il salto dimensionale tra il singolo edificio e la città, cosicché il primo divenga un sottomultiplo della seconda.”

  Per Le Corbusier non esiste una sostanziale distinzione tra l’urbanistica e l’architettura e la sua attenzione si è rivolta a studiare un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa, intesa come cellula di un insieme, si estende via via all'edificio, al quartiere, alla città, all'intero ambiente costruito, il tutto secondo i celeberrimi "Cinque punti" dell’architettura razionale:

1. pilotis (piloni): le abitazioni sono separate dal terreno per mezzo di sostegni in cemento armato (piloni) e l'area sottostante utilizzata come giardino, garage, oppure per far passare le strade.

2. Tetto-giardino: Il tetto delle unità di abitazione è utilizzato come giardino; vengono piantate piante ed erbe; su di esso è possibile creare anche una piscina.

3. Plan-libre (pianta libera): lo scheletro dell'edificio è realizzato in cemento armato che elimina la funzione dei muri portanti, e aprendo la strada alla libertà di inserire pieni e vuoti a piacimento, senza i vincoli che costringevano l'architettura precedente.

4. Facciata libera: è anch'essa una conseguenza dell'uso del cemento armato, che consente di tamponare i vuoti a piacimento, con pareti isolanti o infissi trasparenti.

5. Finestra a nastro: altra innovazione permessa dal cemento armato; la facciata può essere tagliata in orizzontale da un'immensa vetrata orizzontale, permettendo un' illuminazione degli interni mai vista prima).
  Osservando il basamento si può notare l’adozione dei pilotis (punto 1), a forma di tronco di cono rovesciato, per sorreggere tutto il corpo di fabbrica, separando le abitazioni dall’oscurità e dall’umidità derivanti dalla collocazione a terra, ma, soprattutto, rinunciando definitivamente alle mura portanti e quindi affidando il sostegno del solaio ai soli pilastri.

  Un’altra innovazione è rappresentata (punto 2) dal tetto giardino, grande reminiscenza dei giardini pensili della cultura assiro-babilonese.

  L’ennesima intuizione si può evincere dall’arretramento degli stessi pilastri rispetto al filo dei solai: questa tecnica consente uno sviluppo della facciata indipendente dal resto dell’appartamento e in particolare permette l’utilizzo di finestre a nastro (punto 5), capaci di scorrere lungo la parete e di fornire un’illuminazione eccellente. 

martedì 7 aprile 2015

Sono un architetto pentito: SONO UN ARCHITETTO PENTITOCAPITOLO SECONDO2 - L’ED...

Sono un architetto pentito: SONO UN ARCHITETTO PENTITOCAPITOLO SECONDO2 - L’ED...: SONO UN ARCHITETTO PENTITO CAPITOLO SECONDO 2 - L’EDILIZIA ODIERNA E’ NELLA PREISTORIA   Come accennato, il primo sconvolgimento na...
SONO UN ARCHITETTO PENTITO
CAPITOLO SECONDO
2 - L’EDILIZIA ODIERNA E’ NELLA PREISTORIA

  Come accennato, il primo sconvolgimento nasceva dagli impianti, ma cominciai a pensare a cosa era successo mio malgrado sotto i miei occhi in cantiere fino a quel momento.
  In qualsiasi altra branca della produzione umana, la realizzazione avviene a mezzo di un montaggio di elementi precostituiti: fin dai tempi della prima rivoluzione industriale, e poi a seguire con la rivoluzione dell’automazione, si costruisce “assemblando”.

  Un emergente comico napoletano, il giovane Fabian Grutt in un laboratorio di cabaret a Roma, in una sua pantomima in gergo napoletano, racconta la sua personale e traumatica esperienza relativa al bricolage (vado a memoria):

“l’italiano, la dumenica, adda muntà…
ma non è quello che vi credete, marpioni…
c'ha ben altro da fa’ l’italiano, la dumenica…
nun può pensà a cchelle ccose…
lui adda muntà…
perché il sabato è passato all’Ikea…
ha cumprato nu mobile…
nu scatolone enorme…
la sera l’ha purtat’an coppa…
e la domenica l’adda muntà…”

  da qui si evidenzia l’idea che anche l’ultimo atto di un’opera edile, cioè l’allestimento della casa, l’arredamento, viene montato.
  Ma fino ad allora, ultimo atto, nulla è montato.
  La malta per allettare i mattoni si impasta, il calcestruzzo per le strutture in cemento armato si mischia girando il conglomerato nella betoniera, l’intonaco si sbruffa con la “cucchiara” (!!!) e si plasma con il “fratasso” (!!!), la pittura si stende con la “pennellessa” (!!!), ma nulla si monta:

  da quando le case si facevano con lo sterco, il fango, l’argilla, la paglia, qualche pietra, ben poco è cambiato.

  Già, gli strumenti qui citati non danno certo il senso dell’alta tecnologia o dell’homo sapiens: il “maleppeggio” (!!!), la “mazzetta” (!!!) (quest’ultima ben lungi dall’essere uno strumento di corruzione, che già farebbe parte dell’umano, anche se in forma degenerativa) paiono non aver certo nulla a che fare con l’hi-fi, l’hi-tech: appare un linguaggio proveniente da un altro pianeta decaduto o post-atomico.
  Ed anche l’innovazione dell’ultimo secolo, la grande invenzione del cemento armato, mito di grandi ingegneri ed architetti, anche questo si impasta.

  Direbbe Fabian: “l’uomo, se si vuole costruì la casa, adda ‘mpastà”

   E’ evidente che quanto realizzato in cantiere impastando in opera, (e non montando ed assemblando elementi creati in fabbrica; e senza arrivare addirittura – sarebbe troppo - all’assemblaggio automatico a mezzo robots) è destinato ad essere un numero unico, un pezzo unico ed originale: questo può far sognare i cultori dell'unicità dell'arte, ma l'Architettura ha una funzione ed una dimensione che vanno oltre i limiti ristretti e a volte ottusi dell'arte: la Domus non può e non deve essere “ad una dimensione”, come l’uomo di Marcuse.

   In pratica, riferendosi anche alle architetture del passato, il procedimento di impasto e di mescolanza risulta poco diverso da quello che fa lo scultore, che aggredisce e plasma la materia, ed il cui fine primario non è quello di creare spazi fruibili per l'uomo, ove l’uomo sia “dentro”, ma volumi e materie ove l’uomo sia “fuori”.

    Ma purtroppo quanto eseguito nell'ultimo secolo ha conseguito ben altri risultati rispetto al passato.

   La grande architettura del passato aveva come committente principale il grande potere: il Faraone, l'Imperatore, la Chiesa, il signorotto illuminato.

   L'enorme disponibilità economica permetteva ai grandi mastri (gli Architetti di allora: non vi era certo la facoltà di Architettura o di Ingegneria) di creare architetture irripetibili, ma – con il metro di giudizio attuale – inutili per i vivi (tombe o templi di culto), costosissime, per pochi, per fatti e luoghi ad altissima visibilità, ridondanti, emergenti (nel senso che “emergevano” in maniera abnorme rispetto allo spazio quotidiano, e non che fosse a servizio di bisogni e valori “emergenti” o di “emergenza” sociale).

   Ma qui vogliamo cogliere quanto ci proviene dal passato nel campo dell'architettura minore, l'edilizia residenziale e l'urbanistica per ceti medi (e/o) meno abbienti: in quanto questo risulta essere il tema che dovrebbe essere predominante per l'edilizia di oggi, in pieno urbanesimo post-metropolitano:
   ad esempio il borgo di contorno ai grandi centri urbani aristocratici o ecclesiastici;
   la casbah nei paesi arabi: la più nota è la casbah algerina, rivisitata in film epici quali "La battaglia di Algeri", o in quello forse più popolare e meno aulico "Totò le mocò"; o  il  paesetto medioevale arroccato intorno la rocca ma dentro le mura; o la “spina di borgo Pio”, devastata ed umiliata dall’imperiale via della Conciliazione, e che era l’ultimo baluardo a coronamento di una piazza San Pietro rimasta orfana dell’ultimo e frontale ordine michelangiolesco di colonne,  mai eseguito.

  Anche i nostri predecessori impastavano malte, muravano mattoni, intonacavano pareti, le pitturavano: ma il tutto per creare spazi fruibili, lo spazio esterno ed interno spesso si fondevano in un tutt'uno senza soluzioni di continuità, gli interni non finivano con la facciata, fondendo in un unico progetto architettura ed urbanistica.

   Visitate Bomarzo, e non parliamo del più noto "giardino dei mostri", ma del paesetto medioevale: non si comprende mai se si è in un interno o in un esterno, la continuità è fluida; le facciate, limite dei volumi chiusi, sono contemporaneamente pareti interne dei volumi aperti.
   E’ un guardare il dentro da fuori, ed il fuori da dentro: e così anche non più a scala dell’edificio singolo, ma a scala urbana, nelle diverse ideologie di lettura della città:

   A -  le ideologie di destra, ricche di riferimenti imperiali e monumentali, vedevano la città dal suo baricentro, il centro storico o comunque il centro degli “affari”, per qualificarne la centralità dove ha sede il potere e le classi dominanti; la destra economica usava le periferie ai soli fini della “Speculazione Edilizia”, termine ormai in disuso, ma fortemente radicato nella logica politica della Democrazia Cristiana (vedi quel bellissimo film di Francesco Rosi “Le mani sulla città”).
  Società ed Imprenditori d’assalto, quasi  sempre a mezzo di prestanomi, legati al potere politico,  in collusione con le forze al potere, acquistavano ingenti terreni agricoli (con una agricoltura allora in disarmo e disuso, vista la fuga dalle campagne di quel periodo) o aree adibite a discariche urbane, più o meno abusive; il tutto  a basso prezzo, all’esterno delle città, in discontinuità con la città stessa, un po’ lontano, in quanto così costavano di meno.             
  L’Ente Pubblico subito dopo assicurava  la creazione di strade e servizi, Urbanizzazioni primarie e secondarie, a riempimento e saturazione strutturale delle aree intermedie; in tal modo lievitava la urbanizzabilità delle aree  private, e quindi il loro valore, a spese della collettività, grandi spese proprio per la lontananza delle aree in oggetto.

  Le società private, a quel punto, visto aumentare enormemente il valore dei loro terreni, costruivano le Milano 2, i complessi Magliana Nuova a Roma, con tonnellate di cemento armato permessi loro da revisioni compiacenti dei Piani Regolatori, che trasformavano terreni agricoli in terreni fabbricabili; nascevano così orrendi quartieri, parti di città dormitorio, ove era difficile dormire, anzi, dove bisognava stare in campana.
   E pullulavano i “palazzinari”, di destra e di sinistra che fossero, i Genghini ed i Marchini, i Lodigiani (poi trasformatosi in ditta orientata alla costruzione di infrastrutture), i Lamaro, i Caltagirone, i Mezzaroma, gli Armellini, i Berlusconi;
  tutti poi regolarmente falliti, con fallimenti di comodo per mascherare ingenti guadagni e per esulare le tasse, per poi riciclarsi sotto altro nome o sigla in altre operazioni edilizie; anche coadiuvati da società immobiliari intermediarie di vendita, che pullulavano come funghi, per poi scomparire miseramente o fallire anch’esse (ricordiamo l’effimero exploit della MMT, Marino Merlo Tindaro);
  tutti regolarmente falliti, tutti tranne Berlusconi ed il suo gruppo;
  ed altre società colluse con criminalità  organizzata, la Banda della Magliana, Mafia e Camorra, riciclo di denaro sporco di Tangentopoli, il grande potere economico e politico creato dal quel monopolio di poteri forti concentrati in DC-PSI: società che potevano reggere in quanto sorrette finanziariamente da operazioni spesso illecite, se non criminali.

  B - le ideologie di sinistra, radicate in un tessuto sociale proletario e periferico, vedevano la città dall’esterno, dalle sue periferie estreme, dalle borgate, dalle bidonvilles;

  era il periodo dei “brutti, sporchi e cattivi”, film del 1976 diretto da Ettore Scola, con Nino Manfredi (al centro del film sono “la periferia romana dei primi anni settanta e le sue baracche, raccontate impietosamente con tutte le loro miserie, morali e materiali”);

  era il periodo di Pasolini, dei “Ragazzi di strada”,  di “Accattone”, di “Mamma Roma”: dei film senza attori professionisti, realizzati con modeste forze finanziarie, che dimostravano fra l’altro quanto si possa donare all’Arte senza volti di grande grido, conseguendo il “successo” senza l’uso della “notorietà”; erano le aree abitate (si fa per dire) da quel ceto sociale che odiava il piccolo, medio, e grande borghese;

  la manodopera del lavoro precario e giornaliero, la meno qualificata, per i lavori più duri, giusta per le aree più degradate, senza fogne né strade, né servizi secondari, ma neanche quelli primari.

  C – la terza via: la riqualificazione delle aree intermedie, dei quartieri popolari ma non degradati in maniera estrema; quartieri quali la Garbatella, nata da “garbate” iniziative di edilizia economica e popolare (in questo caso addirittura del ventennio!!!) con ampi cortili condominiali su cui si affacciavano le zone nobili delle abitazioni, i soggiorni, mentre sulle strade esterne si affacciavano in maniera non ovvia servizi e disimpegni;

  le iniziative allora in corso di Edilizia Economica e Popolare, all’interno della Legge 167, gli Spinacelo, i Tor de’ Cenci, i Torre Angela, che sono state delle enormi occasioni mancate dal punto di vista sociale e strutturale, ma che hanno creato degli orrendi contenitori di malavita e disperazione, ma che avrebbero potuto offrire quelle strutture e quei servizi consoni ad un habitat civile;
  grande occasione mancata anche sotto l’aspetto dell’industrializzazione dell’edilizia:
  erano investimenti per miliardi di metri cubi, di milioni di abitazioni, all’interno del sistema cooperativo, ove si poteva impostare una moderna mentalità progettuale, unitaria, flessibile e ripetibile, prefabbricabile e riproducibile;
  una progettazione integrale,  “organica”, non nel senso meno interessante dei filoni di estetica architettonica del momento, ma dal punto di vista dell’”organismo” architettonico ed urbano quale entità viva e quindi in continua trasformazione;
   cioè, progettare secondo canoni che prevedano tra gli “input” progettuali fondamentali la continua “trasformabilità” degli organismi abitativi;
   sul tema ritornerò ancora, ma qui voglio mettere in evidenza un enorme flop causato dalla cecità della cultura architettonica e delle leggi (cecità di ieri e di oggi).
   
  Faccio un esempio di vita vissuta:
  nel 1979, eseguii in appalto a Tor de’ Cenci un edificio su un terreno di proprietà di una cooperativa, di nove soci, per nove appartamenti: nove è il numero minimo di soci per la costituzione di una cooperativa: il numero minimo quindi di massima agibilità, di facile gestibilità (dell’intrallazzo), e quindi di massimo profitto.
  Accanto a noi vi erano una infinità di piccole cooperative di nove soci, con il loro bravo progetto, con la loro brava Direzione Lavori, con la loro spettabile Impresa.
   Un progetto di migliaia di appartamenti, inserito in un programma urbanistico unitario, con un disegno urbano accattivante costruito su una traiettoria stradale in cerchio e poi in curva parabolica, veniva realizzato in tanti piccoli lotti, tanti quadratini; chi attestandosi più vicino al fronte stradale, chi a ridosso del confine retrostante; chi creando un piano “pilotì” con percorso pedonale a piano terra, che non aveva alcuna continuità con il vicino, con percorsi quindi che non portavano da nessuna parte; chi coprendola a tetto con tegole, chi con terrazze per stendere i panni; ognuno però con la sua brava antenna centralizzata per nove utenti (o forse le centralizzate non esistevano ancora?); ognuno però con il suo garage sotterraneo per nove macchine, o qualcuna in più per chi ne possedeva già allora  due o tre (lasciando questi spazi non proteggibili dal punto di vista della sicurezza, con custodi o altro, in quanto troppo piccoli; quando invece si potevano prevedere ampie autorimesse con chiusure automatiche, con custodi la cui spesa si poteva ripartire su innumerevoli utenti, con impianti sofisticati anti-incendio, anti-rapina, con video-sorveglianza  - e questo già allora esisteva); chi colorando di rosso la sua facciata, perché il suo architetto era comunista, chi di grigio perché …
    E qui arriva il paradosso, il finale incredibile:

   sono tornato a Tor de’ Cenci dopo tanti anni: l’avevo lasciata in costruzione, non finita, tutta un cantiere; l’ho ritrovata completata, ma non ho riconosciuto il palazzo alla cui realizzazione avevo partecipato:
   la strada in curva si confondeva nella linea spezzettata e discontinua di tanti segmenti di prospetto;
   i prospetti, tutti disuguali e non omogenei, facevano individuare le singole unità, in un organismo urbano che non era stato pensato per quelle singole unità;
  la mano (o meglio, i piedi) degli architetti emergeva imperiosa in un fantasmagorico puzzle;
   lo skyline a casaccio coronava in maniera disordinata la rigida geometria della curva urbana;
  le rifiniture ed i colori, tutti diseguali, completavano come un triste Arlecchino la periferia romana.

  Ed io non ho riconosciuto il palazzo, che io avevo costruito come impresa.
  Ripeto, non ho riconosciuto il palazzo!!!

  Morale: gli interventi in edilizia economica e popolare, i Peep, la legge 167 e successive, sono stati una grande occasione perduta, dato i progettisti e l’industria edile, (e quindi anche la Politica, quella in senso buono e con la P maiuscola) non hanno saputo approfittare della grande dimensione dei loro interventi, degli enormi capitali investiti, ma per le speculazioni e non per la ricerca, per aggiornare cioè il livello tecnologico dell’edilizia.

  E vedremo in seguito che non è stata la sola occasione perduta, ma comunque sempre a partire dallo stesso periodo storico, in pieno boom economico.

  E così in edilizia siamo rimasti nella pre-istoria!