Sono un architetto pentito - cap. 5
5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA
Mentre le
Expo’ planetarie sono state la vetrina di tante innovazioni tecnologiche
nell’edilizia (soprattutto la smontabilità
doveva essere la caratterisitica principale, data la funzione provvisoria
dell’oggetto architettonico), e soprattutto nei suoi monumenti, le Olimpiadi
sono state l’occasione per la riqualificazione urbana e territoriale delle
città ospitanti, se non di tutto il paese.
Facciamo un po’ di “revival” nostrano, tornando
ai mitici anni ‘60.
Le Olimpiadi
del 1960 furono per la Capitale una
grande occasione per riqualificarsi urbanisticamente (e contemporaneamente,
come vedremo, per stravolgerne e ribaltare le prospettive ideologiche della
scienza e della cultura urbanistica di allora, che erano alla base e struttura
portante per il Piano Regolatore allora in fieri).
Vi erano due
ampie aree urbane, tutte e due nate nel ventennio e di impostazione
architettonica imperiale, eroica e fascista,
già qualificate per l’immensità degli spazi e delle attrezzature sportive,
nonché per la loro posizione topica: a nord il Foro Italico, fino a pochi anni
prima Foro Mussolini, con ben tre stadi, (l’Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il
Flaminio nelle vicinanze), e con la sede del C.O.N.I., tempio sacro dello
sport.
LO STADIO OLIMPICO foto d’epoca
A sud l’EUR, quasi una moderna new-town
alla estrema periferia, proiettata verso il mare, con le sue strutture già
realizzate per una Expò Universale mai realizzata “causa guerra intervenuta”;
quartiere che venne strutturalmente incrementato a mezzo di un impianto
di paesaggio urbano quale il laghetto artificiale (sede allora anche di
fantasmagorici giochi d’acqua, di colori e di musica, impianto tecnico ormai in
disuso, come spesso avviene non si sa perchè); il velodromo (anch’esso presto
in disuso, ed ora distrutto per implosione causata, comprese tonnellate di
eternit, da cui i processi per disastro colposo), gli impianti ginnici delle Tre
fontane, ed il Palazzo dello Sport, (oggi Palalottomatica, melanconicamente in
versione non più sportiva), posizionato su una collinetta di sfondo rispetto al
lago, con una visione al limite dell’ufologico, da “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.
IL PALASPORT IN COSTRUZIONE
Tra queste due grandi Emergenze urbane fu
creato, interno alla città, un asse di collegamento veloce nord-sud, la via
Olimpica, tutto ad ovest rispetto il centro storico. Ed in tal modo tale
grande infrastruttura permise negli anni seguenti il traslarsi di tante
attività direzionali, e di potere economico e politico, dal centro storico
verso la qualificata periferia sud rappresentata dall’EUR.
Tutto ciò era di fatto uno stravolgimento del
tormentone di allora, di quanto cioè predicato da tanti Mostri sacri dell’Urbanistica,
da Piccinato a Zevi, da Quaroni a Mario Fiorentino: l’Asse Attrezzato.
Fin dagli anni cinquanta l’asse a est
della città veniva indicato come la direttrice dominante per l’espansione delle
Attività Direzionali di Roma.
L’idea
portava ad individuare nel P.R.G. (Piano Regolatore Generale) del 1962,
definitivamente approvato nel ’65, una vasta area a est del centro
storico destinata prevalentemente a funzioni direzionali e al terziario,
quale Sistema Direzionale Orientale: e tale struttura portante della città,
avrebbe dovuto qualificarla nei contenuti, e decongestionarla dal traffico a
mezzo di una nuova forma di decentramento ad est.
PROGETTO PER
L’ASSE ATTREZZATO DI ROMA
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La
via Olimpica, invece, offriva un asse di scorrimento veloce ad ovest del
centro storico, e di congiunzione a sud con la “New Town” Eur, quasi novella
città satellite della Capitale, destinata a diventare al più presto il vero e
nuovo Centro Direzionale urbano e metropolitano, regionale e nazionale; e nemmeno la sua successiva
continuazione e congiunzione con la Tangenziale Est, che la raccordava fino a
S. Giovanni, ed in seguito, attraverso via Marco Polo e parte della Cristoforo
Colombo, di nuovo fino all’Eur, mitigava lo spostamento di traffico ed attività
ormai tendenti a spostarsi all’estremo sud della città, all’Eur verso il mare.
D’altronde la
Tangenziale Ovest, ben lungi dall’essere un Asse Attrezzato, risulta essere
soltanto un mediocre tentativo di viabilità veloce, troppo spesso congestionata
da un eccesso di traffico.
E così, per “colpa” di una Olimpiade,
finirono miseramente tutte le più ampie velleità Urbanistiche di quella cultura
che ha fatto storia, sì, ma senza nulla realizzare:
infatti, come di tante altre cose, di “Asse
Attrezzato”, dopo tanto discutere e sognare, non se ne è più parlato.
Ma di Villaggio
Olimpico sì, perché lo abbiamo sempre sotto gli occhi, passando dal
viadotto di Corso Francia: fu costruito negli anni ‘58 – 59 per alloggiare gli atleti olimpici, su
progetto redatto da mostri sacri quali gli architetti Vittorio Cafiero,
Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco, e, dulcis in fundo,
il grande Luigi Moretti
le firme
autorevoli ed il tema sui generis hanno rivestito di leggenda un’organismo
ricco di pulsazioni irrisolte: addirittura, riconosciuto
come uno dei migliori quartieri di edilizia pubblica realizzati a Roma, il
progetto del Villaggio Olimpico, vince nel 1961 il premio regionale IN/ARCH
(!!!)
L’hanno paragonato all’Unité d'Habitation di Marseille, realizzata da Le
Corbusier nel lontano 1946 (!!!) (vedi capitolo 3):
Villaggio Olimpico di Roma
Unité d’habitation de marsille
questa non era certo un “mostro di bellezza”,
ma sicuramente era il “manifesto” delle più originali teorie urbanistiche ed
architettoniche della ricostruzione; idee allora – nel 1946, cioè
nell’immediato dopo guerra – rivoluzionarie e all’avanguardia, ma ormai
obsolete nel 1958 ben dodici anni dopo, anche perché le idee espresse
dall’Architettura Razionalista di Le Corbusier non hanno subito la dovuta
evoluzione della specie nelle direzioni già insite nelle proposte
dell’Architettura Razionalista, da questa suggerite e non solo in embrione.
Vediamo quali erano tali intuizioni
rivoluzionarie.
1)
nell’Unità di Abitazione di Marsiglia i 337 appartamenti, con semplice finzione
di facciata, appaiono essere stati costruiti in serie e poi assemblati, a
testimoniare l’idea di una casa intesa quale una “macchina per abitare”, (adeguandosi al periodo storico
rivoluzionato dalla meccanizzazione e dalla proliferazione delle macchine),
nella quale possono abitarvi fino a 1500 persone, un piccolo quartiere.
Tali concetti, (l’assemblabilità e la
trasformabilità, quindi una potenziale produzione in serie) non vengono in
alcun modo sviluppati, anzi nel Villaggio Olimpico vengono solo “copiati” in
una versione ancora soltanto di facciata.
2) l’adozione nell’attacco a terra di un piano pilotis a
Marsiglia suggeriva, nella discontinuità con il terreno, la continuità
con funzioni sociali o commerciali, con percorsi attrezzati.
Nel Villaggio Olimpico rimane la mera
discontinuità con il terreno, lasciando ad un facile processo di degrado questi
spazi pubblici non utilizzati, (se addirittura non al rischio di aggressioni ed
azioni malavitose negli ampi spazi senza limiti ottici).
3) A Marsiglia l’arretramento dei
pilastri rispetto al filo dei solai consente uno sviluppo della facciata
indipendente dal resto dell’appartamento e da ritmi strutturali, e permette
l’utilizzo di finestrature a nastro, capaci di scorrere a piacere lungo la
parete, e di fornire un’illuminazione personalizzata.
Nel Villaggio Olimpico invece, nonostante
tale arretramento, il prospetto è ritmato in una sequenza a ripetizione che può
ripetersi per chilometri senza soluzioni di continuità.
4)
Al settimo e ottavo piano, la cosa forse più rivoluzionaria a Marsiglia, sono
presenti una parte di servizi urbani essenziali (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare il salto dimensionale
tra il singolo edificio e la città: il primo viene proposto come semplice
sottomultiplo della seconda.
Il lastrico
solare è trattato come un naturalistico Roof Garden (giardino tra le
terrazze), rifinendo nel verde il paesaggio dello Sky-line (linea del
cielo) del manufatto oggetto dell’intervento umano.
Tutto ciò
tende a ridurre ai minimi termini la distinzione tra urbanistica e
architettura, tra città ed edificio, con un sistema di relazioni che, partendo
dalla singola unità
abitativa,
intesa come cellula di un insieme, si estende via via
all'edificio, al quartiere, alla città, all'intero ambiente
costruito.
A Roma,
invece, siamo di fronte ad un piatto lastrico solare, che non è “portatore di
servizi urbani”, e la cui unica funzione è coprire il fabbricato. In realtà con
il Villaggio di Roma siamo quindi ben lontani dalla concretizzazione di quanto
proclamato nel “manifesto razionalista” della Unité d’Habitation, ma siamo di
fronte ad una brutta copia conforme di una cosa già di per sé non
eccezionalmente bella (ma che comunque aveva al suo interno gli embrioni di
eccezionali innovazioni, embrioni forse ancora oggi non sviluppati):
peccato,
poteva essere una grande occasione, ed invece siamo di fronte ad un’ennesima occasione mancata, se non proprio ad un
“mostro architettonico”.