martedì 7 aprile 2015

SONO UN ARCHITETTO PENTITO
CAPITOLO SECONDO
2 - L’EDILIZIA ODIERNA E’ NELLA PREISTORIA

  Come accennato, il primo sconvolgimento nasceva dagli impianti, ma cominciai a pensare a cosa era successo mio malgrado sotto i miei occhi in cantiere fino a quel momento.
  In qualsiasi altra branca della produzione umana, la realizzazione avviene a mezzo di un montaggio di elementi precostituiti: fin dai tempi della prima rivoluzione industriale, e poi a seguire con la rivoluzione dell’automazione, si costruisce “assemblando”.

  Un emergente comico napoletano, il giovane Fabian Grutt in un laboratorio di cabaret a Roma, in una sua pantomima in gergo napoletano, racconta la sua personale e traumatica esperienza relativa al bricolage (vado a memoria):

“l’italiano, la dumenica, adda muntà…
ma non è quello che vi credete, marpioni…
c'ha ben altro da fa’ l’italiano, la dumenica…
nun può pensà a cchelle ccose…
lui adda muntà…
perché il sabato è passato all’Ikea…
ha cumprato nu mobile…
nu scatolone enorme…
la sera l’ha purtat’an coppa…
e la domenica l’adda muntà…”

  da qui si evidenzia l’idea che anche l’ultimo atto di un’opera edile, cioè l’allestimento della casa, l’arredamento, viene montato.
  Ma fino ad allora, ultimo atto, nulla è montato.
  La malta per allettare i mattoni si impasta, il calcestruzzo per le strutture in cemento armato si mischia girando il conglomerato nella betoniera, l’intonaco si sbruffa con la “cucchiara” (!!!) e si plasma con il “fratasso” (!!!), la pittura si stende con la “pennellessa” (!!!), ma nulla si monta:

  da quando le case si facevano con lo sterco, il fango, l’argilla, la paglia, qualche pietra, ben poco è cambiato.

  Già, gli strumenti qui citati non danno certo il senso dell’alta tecnologia o dell’homo sapiens: il “maleppeggio” (!!!), la “mazzetta” (!!!) (quest’ultima ben lungi dall’essere uno strumento di corruzione, che già farebbe parte dell’umano, anche se in forma degenerativa) paiono non aver certo nulla a che fare con l’hi-fi, l’hi-tech: appare un linguaggio proveniente da un altro pianeta decaduto o post-atomico.
  Ed anche l’innovazione dell’ultimo secolo, la grande invenzione del cemento armato, mito di grandi ingegneri ed architetti, anche questo si impasta.

  Direbbe Fabian: “l’uomo, se si vuole costruì la casa, adda ‘mpastà”

   E’ evidente che quanto realizzato in cantiere impastando in opera, (e non montando ed assemblando elementi creati in fabbrica; e senza arrivare addirittura – sarebbe troppo - all’assemblaggio automatico a mezzo robots) è destinato ad essere un numero unico, un pezzo unico ed originale: questo può far sognare i cultori dell'unicità dell'arte, ma l'Architettura ha una funzione ed una dimensione che vanno oltre i limiti ristretti e a volte ottusi dell'arte: la Domus non può e non deve essere “ad una dimensione”, come l’uomo di Marcuse.

   In pratica, riferendosi anche alle architetture del passato, il procedimento di impasto e di mescolanza risulta poco diverso da quello che fa lo scultore, che aggredisce e plasma la materia, ed il cui fine primario non è quello di creare spazi fruibili per l'uomo, ove l’uomo sia “dentro”, ma volumi e materie ove l’uomo sia “fuori”.

    Ma purtroppo quanto eseguito nell'ultimo secolo ha conseguito ben altri risultati rispetto al passato.

   La grande architettura del passato aveva come committente principale il grande potere: il Faraone, l'Imperatore, la Chiesa, il signorotto illuminato.

   L'enorme disponibilità economica permetteva ai grandi mastri (gli Architetti di allora: non vi era certo la facoltà di Architettura o di Ingegneria) di creare architetture irripetibili, ma – con il metro di giudizio attuale – inutili per i vivi (tombe o templi di culto), costosissime, per pochi, per fatti e luoghi ad altissima visibilità, ridondanti, emergenti (nel senso che “emergevano” in maniera abnorme rispetto allo spazio quotidiano, e non che fosse a servizio di bisogni e valori “emergenti” o di “emergenza” sociale).

   Ma qui vogliamo cogliere quanto ci proviene dal passato nel campo dell'architettura minore, l'edilizia residenziale e l'urbanistica per ceti medi (e/o) meno abbienti: in quanto questo risulta essere il tema che dovrebbe essere predominante per l'edilizia di oggi, in pieno urbanesimo post-metropolitano:
   ad esempio il borgo di contorno ai grandi centri urbani aristocratici o ecclesiastici;
   la casbah nei paesi arabi: la più nota è la casbah algerina, rivisitata in film epici quali "La battaglia di Algeri", o in quello forse più popolare e meno aulico "Totò le mocò"; o  il  paesetto medioevale arroccato intorno la rocca ma dentro le mura; o la “spina di borgo Pio”, devastata ed umiliata dall’imperiale via della Conciliazione, e che era l’ultimo baluardo a coronamento di una piazza San Pietro rimasta orfana dell’ultimo e frontale ordine michelangiolesco di colonne,  mai eseguito.

  Anche i nostri predecessori impastavano malte, muravano mattoni, intonacavano pareti, le pitturavano: ma il tutto per creare spazi fruibili, lo spazio esterno ed interno spesso si fondevano in un tutt'uno senza soluzioni di continuità, gli interni non finivano con la facciata, fondendo in un unico progetto architettura ed urbanistica.

   Visitate Bomarzo, e non parliamo del più noto "giardino dei mostri", ma del paesetto medioevale: non si comprende mai se si è in un interno o in un esterno, la continuità è fluida; le facciate, limite dei volumi chiusi, sono contemporaneamente pareti interne dei volumi aperti.
   E’ un guardare il dentro da fuori, ed il fuori da dentro: e così anche non più a scala dell’edificio singolo, ma a scala urbana, nelle diverse ideologie di lettura della città:

   A -  le ideologie di destra, ricche di riferimenti imperiali e monumentali, vedevano la città dal suo baricentro, il centro storico o comunque il centro degli “affari”, per qualificarne la centralità dove ha sede il potere e le classi dominanti; la destra economica usava le periferie ai soli fini della “Speculazione Edilizia”, termine ormai in disuso, ma fortemente radicato nella logica politica della Democrazia Cristiana (vedi quel bellissimo film di Francesco Rosi “Le mani sulla città”).
  Società ed Imprenditori d’assalto, quasi  sempre a mezzo di prestanomi, legati al potere politico,  in collusione con le forze al potere, acquistavano ingenti terreni agricoli (con una agricoltura allora in disarmo e disuso, vista la fuga dalle campagne di quel periodo) o aree adibite a discariche urbane, più o meno abusive; il tutto  a basso prezzo, all’esterno delle città, in discontinuità con la città stessa, un po’ lontano, in quanto così costavano di meno.             
  L’Ente Pubblico subito dopo assicurava  la creazione di strade e servizi, Urbanizzazioni primarie e secondarie, a riempimento e saturazione strutturale delle aree intermedie; in tal modo lievitava la urbanizzabilità delle aree  private, e quindi il loro valore, a spese della collettività, grandi spese proprio per la lontananza delle aree in oggetto.

  Le società private, a quel punto, visto aumentare enormemente il valore dei loro terreni, costruivano le Milano 2, i complessi Magliana Nuova a Roma, con tonnellate di cemento armato permessi loro da revisioni compiacenti dei Piani Regolatori, che trasformavano terreni agricoli in terreni fabbricabili; nascevano così orrendi quartieri, parti di città dormitorio, ove era difficile dormire, anzi, dove bisognava stare in campana.
   E pullulavano i “palazzinari”, di destra e di sinistra che fossero, i Genghini ed i Marchini, i Lodigiani (poi trasformatosi in ditta orientata alla costruzione di infrastrutture), i Lamaro, i Caltagirone, i Mezzaroma, gli Armellini, i Berlusconi;
  tutti poi regolarmente falliti, con fallimenti di comodo per mascherare ingenti guadagni e per esulare le tasse, per poi riciclarsi sotto altro nome o sigla in altre operazioni edilizie; anche coadiuvati da società immobiliari intermediarie di vendita, che pullulavano come funghi, per poi scomparire miseramente o fallire anch’esse (ricordiamo l’effimero exploit della MMT, Marino Merlo Tindaro);
  tutti regolarmente falliti, tutti tranne Berlusconi ed il suo gruppo;
  ed altre società colluse con criminalità  organizzata, la Banda della Magliana, Mafia e Camorra, riciclo di denaro sporco di Tangentopoli, il grande potere economico e politico creato dal quel monopolio di poteri forti concentrati in DC-PSI: società che potevano reggere in quanto sorrette finanziariamente da operazioni spesso illecite, se non criminali.

  B - le ideologie di sinistra, radicate in un tessuto sociale proletario e periferico, vedevano la città dall’esterno, dalle sue periferie estreme, dalle borgate, dalle bidonvilles;

  era il periodo dei “brutti, sporchi e cattivi”, film del 1976 diretto da Ettore Scola, con Nino Manfredi (al centro del film sono “la periferia romana dei primi anni settanta e le sue baracche, raccontate impietosamente con tutte le loro miserie, morali e materiali”);

  era il periodo di Pasolini, dei “Ragazzi di strada”,  di “Accattone”, di “Mamma Roma”: dei film senza attori professionisti, realizzati con modeste forze finanziarie, che dimostravano fra l’altro quanto si possa donare all’Arte senza volti di grande grido, conseguendo il “successo” senza l’uso della “notorietà”; erano le aree abitate (si fa per dire) da quel ceto sociale che odiava il piccolo, medio, e grande borghese;

  la manodopera del lavoro precario e giornaliero, la meno qualificata, per i lavori più duri, giusta per le aree più degradate, senza fogne né strade, né servizi secondari, ma neanche quelli primari.

  C – la terza via: la riqualificazione delle aree intermedie, dei quartieri popolari ma non degradati in maniera estrema; quartieri quali la Garbatella, nata da “garbate” iniziative di edilizia economica e popolare (in questo caso addirittura del ventennio!!!) con ampi cortili condominiali su cui si affacciavano le zone nobili delle abitazioni, i soggiorni, mentre sulle strade esterne si affacciavano in maniera non ovvia servizi e disimpegni;

  le iniziative allora in corso di Edilizia Economica e Popolare, all’interno della Legge 167, gli Spinacelo, i Tor de’ Cenci, i Torre Angela, che sono state delle enormi occasioni mancate dal punto di vista sociale e strutturale, ma che hanno creato degli orrendi contenitori di malavita e disperazione, ma che avrebbero potuto offrire quelle strutture e quei servizi consoni ad un habitat civile;
  grande occasione mancata anche sotto l’aspetto dell’industrializzazione dell’edilizia:
  erano investimenti per miliardi di metri cubi, di milioni di abitazioni, all’interno del sistema cooperativo, ove si poteva impostare una moderna mentalità progettuale, unitaria, flessibile e ripetibile, prefabbricabile e riproducibile;
  una progettazione integrale,  “organica”, non nel senso meno interessante dei filoni di estetica architettonica del momento, ma dal punto di vista dell’”organismo” architettonico ed urbano quale entità viva e quindi in continua trasformazione;
   cioè, progettare secondo canoni che prevedano tra gli “input” progettuali fondamentali la continua “trasformabilità” degli organismi abitativi;
   sul tema ritornerò ancora, ma qui voglio mettere in evidenza un enorme flop causato dalla cecità della cultura architettonica e delle leggi (cecità di ieri e di oggi).
   
  Faccio un esempio di vita vissuta:
  nel 1979, eseguii in appalto a Tor de’ Cenci un edificio su un terreno di proprietà di una cooperativa, di nove soci, per nove appartamenti: nove è il numero minimo di soci per la costituzione di una cooperativa: il numero minimo quindi di massima agibilità, di facile gestibilità (dell’intrallazzo), e quindi di massimo profitto.
  Accanto a noi vi erano una infinità di piccole cooperative di nove soci, con il loro bravo progetto, con la loro brava Direzione Lavori, con la loro spettabile Impresa.
   Un progetto di migliaia di appartamenti, inserito in un programma urbanistico unitario, con un disegno urbano accattivante costruito su una traiettoria stradale in cerchio e poi in curva parabolica, veniva realizzato in tanti piccoli lotti, tanti quadratini; chi attestandosi più vicino al fronte stradale, chi a ridosso del confine retrostante; chi creando un piano “pilotì” con percorso pedonale a piano terra, che non aveva alcuna continuità con il vicino, con percorsi quindi che non portavano da nessuna parte; chi coprendola a tetto con tegole, chi con terrazze per stendere i panni; ognuno però con la sua brava antenna centralizzata per nove utenti (o forse le centralizzate non esistevano ancora?); ognuno però con il suo garage sotterraneo per nove macchine, o qualcuna in più per chi ne possedeva già allora  due o tre (lasciando questi spazi non proteggibili dal punto di vista della sicurezza, con custodi o altro, in quanto troppo piccoli; quando invece si potevano prevedere ampie autorimesse con chiusure automatiche, con custodi la cui spesa si poteva ripartire su innumerevoli utenti, con impianti sofisticati anti-incendio, anti-rapina, con video-sorveglianza  - e questo già allora esisteva); chi colorando di rosso la sua facciata, perché il suo architetto era comunista, chi di grigio perché …
    E qui arriva il paradosso, il finale incredibile:

   sono tornato a Tor de’ Cenci dopo tanti anni: l’avevo lasciata in costruzione, non finita, tutta un cantiere; l’ho ritrovata completata, ma non ho riconosciuto il palazzo alla cui realizzazione avevo partecipato:
   la strada in curva si confondeva nella linea spezzettata e discontinua di tanti segmenti di prospetto;
   i prospetti, tutti disuguali e non omogenei, facevano individuare le singole unità, in un organismo urbano che non era stato pensato per quelle singole unità;
  la mano (o meglio, i piedi) degli architetti emergeva imperiosa in un fantasmagorico puzzle;
   lo skyline a casaccio coronava in maniera disordinata la rigida geometria della curva urbana;
  le rifiniture ed i colori, tutti diseguali, completavano come un triste Arlecchino la periferia romana.

  Ed io non ho riconosciuto il palazzo, che io avevo costruito come impresa.
  Ripeto, non ho riconosciuto il palazzo!!!

  Morale: gli interventi in edilizia economica e popolare, i Peep, la legge 167 e successive, sono stati una grande occasione perduta, dato i progettisti e l’industria edile, (e quindi anche la Politica, quella in senso buono e con la P maiuscola) non hanno saputo approfittare della grande dimensione dei loro interventi, degli enormi capitali investiti, ma per le speculazioni e non per la ricerca, per aggiornare cioè il livello tecnologico dell’edilizia.

  E vedremo in seguito che non è stata la sola occasione perduta, ma comunque sempre a partire dallo stesso periodo storico, in pieno boom economico.

  E così in edilizia siamo rimasti nella pre-istoria!




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