giovedì 21 maggio 2015

CAPITOLO 0 - SONO UN ARCHITETTO PENTITO

  9 - UN EDIFICIO E' BRUTTO? PORTATELO DAL CARROZZIERE

  Abbiamo parlato di sovrastrutture da applicare agli edifici per produrre un "valore aggiunto" rispetto a temi energetici, di impiantistica, strutturali: i tetti, i lastrici solari, ma anche i prospetti degli edifici, devono essere tutti pensati come superfici portanti impianti di trasformazione di energia eolica; o pensati captanti irradiazioni solari, e loro trasformazione in energia, per diminuire il proprio fabbisogno energetico proveniente dalla rete; negli edifici esistenti, tali superfetazioni non devono essere pensate come una
8 - IL MOSTRO EMERGENTE: CENTRO POMPIDOU A PARIGI

  Nel Capitolo precedente abbiamo lanciato "per assurdo" uno straordinario ed aberrante paradosso: “che addirittura anche l'attività di "speculazione edilizia", pur nella sua aberrante realtà e definizione, è stata comunque una ennesima occasione mancata per l'ammodernamento della progettazione e della produzione dell'industria edile”.
  In pratica, ogni concentrazione di esecuzione di grandi quantità industriali, ha permesso in qualsiasi branchia di attività una razionalizzazione dei sistemi di produzione, una loro meccanizzazione ed automazione, una tecnolocizzazione e una evoluzione in una sfera di realtà intelligente: dappertutto, tranne che in edilizia; e non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo;
  tranne isolati episodi di alcune creazioni cosiddette "di avanguardia" ed utopiche, futuribili e da alcuni ritenute demenziali; mentre contemporaneamente nelle altre branchie industriali tutto ciò non è né utopico né di avanguardia, anzi completamente attuale, consolidato nella cultura progettuale di ingegneria e di design.

  In pratica anche il più "bieco capitalismo" ha cavalcato l'astro del mito tecnologico ed artificialmente intelligente, del design globale, della progettazione integrale, realizzando opere in tutti i settori industriali di funzionalità, affidabilità e bellezza astrale;
  e quindi per assonanza anche la più "bieca speculazione edilizia", ma anche la Legge 167, le cooperative rosse o bianche che siano, l'edilizia economica e popolare nel suo complesso, etc. avrebbero potuto cavalcare l'astro del mito progettuale tecnologico ed artificialmente intelligente, del design globale, della progettazione integrale, etc.
  Ma non lo ha fatto. Non lo ha fatto per deficit di lungimiranza degli operatori economici, che non hanno investito nella ricerca;
  per dimenticanza del tema "abitazione" nell'industria collaterale soprattutto per quanto riguarda la evoluzione di tecnologia dei materiali (chimica soprattutto, fisica, mineralogia, etc.); per arcaicità di cultura (per non dire incompetenza) dei progettisti del campo, (architetti ed ingegneri).
  Questi ultimi hanno forse cavalcato l'onda del monumento emergente, del mostro iper-tecnologico e post-industriale, del pezzo unico che  proietta l'autore nella leggenda della storia, ma non l'onda dell'Habitat dove l'uomo vive.
  Qui trovate un monumento eccezionale ed estremo di questa cultura: CENTRO POMPIDOU A PARIGI, un numero 1.
  Un grande Renzo Piano, con una architettura high-tech un po' datata (1971/77), nel suo equivoco tra opera provvisionale o definitiva.


 Un'apoteosi di tubazioni da archeologia industriale proiettata nel futuro; il riscatto alla valenza estetica della impiantistica e della struttura estrema; opere provvisionali e temporanee assurte ad elemento costruttivo definitivo; una continuità ideale di nervature siderurgiche tra interno ed esterno. 
  Le immagini parlano da sole.


sabato 16 maggio 2015

Sono un architetto pentito
Capitolo 7

7 - LA SPECULAZIONE EDILIZIA:
malgrado tutto una occasione mancata (!!!)

  Abbiamo visto nei capitoli passati che  nonostante un forte fermento negli anni sessanta teso a promuovere le premesse ideologiche e tecniche per una trasformazione dell'habitat umano in senso moderno ed industriale;   nonostante vi siano state delle grandi occasioni di investimento nell'edilizia pubblica (legge 167 e di edilizia economica e popolare) e privata (cooperative, ma anche costruttori che invece di sviluppare quartieri tecnologicamente ed urbanisticamente avanzati, hanno fatto mere operazioni da "palazzinari"); 
  nonostante si sia creata quella energia indotta provocata dalla spinta dell'urbanesimo e della pressione demografica, che ha trasformato città storiche in megalopoli;       nonostante tutte queste condizioni favorevoli.., le città si sono accresciute con criteri e standards abominevoli, non riconducibili in maniera riduttiva soltanto alla "speculazione edilizia".

  LA SPECULAZIONE EDILIZIA: termine eccessivamente inflazionato nel primo dopoguerra democristiano del boom edilizio dal '63 in poi, ed oggi ripetuto a memoria forse senza conoscerne il significato e l'origine.

  E' appunto del '63 il film di Francesco Rosi "Le mani sulla città". 
  "In un degradato quartiere di Napoli, un palazzo crolla a causa dei lavori di demolizione ad esso adiacenti, causando morti e feriti.
  Responsabile del disastro, l'imprenditore edile Edoardo Nottola viene coinvolto in un'inchiesta da cui esce senza ripercussioni giudiziarie, ma inevitabilmente compromesso agli occhi del partito di Destra per cui è consigliere comunale.
  I compagni lo abbandonano e il suo nome alle elezioni viene ritirato, ma Nottola, inflessibile e protervo, attinge ad ogni risorsa del suo potere e, spalleggiato da alcuni consiglieri corrotti, diviene il primo candidato nel gruppo di Centro.
  Solo l'opposizione di Sinistra sembra decisa a contrastare la prepotente ascesa del costruttore.
  A guidarla è il consigliere De Vita che, dopo accurate indagini, porta alla luce il coinvolgimento di Nottola e dei suoi seguaci nella conquista di un appalto su cui poggiano cospicui interessi economici e politici. Nel frattempo, il quartiere afflitto dal recente disastro subisce un'ordinanza di sfratto che provoca la sommossa dei suoi occupanti, sfociando in duri scontri con le forze di polizia. Nonostante il malcontento popolare, i disordini dovuti al rovesciamento della maggioranza e la tenace resistenza dei suoi oppositori, Nottola otterrà comunque la carica di assessore all'edilizia, provocando profonde fratture anche nella Destra. Questa, con i suoi rappresentanti più compromessi, tornerà infine ad appoggiarlo per il proprio tornaconto."   (da Rai International on line)

   Che cosa è stata la "Speculazione Edilizia".
  Un torbido connubio tra interesse privato e politica, tipica del regime democristiano di allora: un imprenditore, in silenzioso accordo con politici del suo partito, acquista una vasta area agricola, spesso in disuso, lontana dalla città, nemmeno tangente ad essa, proprio per poterla acquistare a poche lire.
  Il Comune, trasformando improvvisamente il proprio Piano Regolatore, (ma anche spesso senza trasformarlo, agendo di iniziativa propria in assenza di un preciso strumento urbanistico, o in deroga allo strumento esistente), costruisce nell'area intermedia tra la città ed il terreno, in questione investendo denaro pubblico, tutte quelle attrezzature ed urbanizzazioni primarie e secondarie di cui quel terreno avrà bisogno per essere utilizzato per costruzioni residenziali.
  (per urbanizzazioni primarie si intendono strade, fogne, linee di elettricità e gas, linee di trasporto pubblico; per urbanizzazioni secondarie si intendono i servizi di ordine superiore, scuole, ambulatori, poste, etc).

  Quindi in pratica a spese dell'Ente Pubblico, e quindi della collettività, si creava un immenso valore aggiunto a favore del Privato proprietario del terreno di periferia estrema,  pagato due soldi, ed ora sopravvalutato in forza di un enorme profitto di partenza essendo divenuto costruibile e già ricco di servizi.
  E gli Architetti spesso sono stati professionisti conniventi ed indulgenti, mordendosi tra di loro per accaparrarsi le briciole dell'immane speculazione.
   Nascevano così quegli orrendi quartieri dormitorio creati da "palazzinari" incalliti di professione delle periferie urbane:
  i quartieri degradati di Roma, cuore del potere, di tanti nomi noti: Genghini, Marchini, Ciarrapico, Armellini, Mezzaroma, Lamaro, Lodigiani (poi riscattatosi, passando alle infrastrutture);
  le Milano 2, 3, ...n, dell'allora indebitato e adesso nostro attuale Presidente del PDL o Forza Italia;
  società come le Condotte Acqua, la Salini, la Cogefar (gruppo Fiat), la Cambogi.
 Abbiamo visto che grande occasione mancata (al fine della industrializzazione  dell'edilizia in termini di più ampia e moderna tecnologia)  sia stata la realizzazione di programmi di edilizia economica e popolare, progetti PEEP all'interno della legge 167 e successive;
  o quelli realizzati da cooperative, bianche o rosse che siano;
  e addirittura i programmi dei peggiori palazzinari, che comunque potevano essere una occasione (appunto mancata) di una modernizzazione del "fare edilizia".

  D'altronde in tutte le altre branchie dell'industria il capitale privato è stato promotore ed artefice di ricerca, di innovazioni, di scoperte, di invenzioni: l'evoluzione della specie, funzionale ed estetica,  dalla carrozza all'automobile, in Italia è stata la Fiat a gestirla e portarla a buon termine;
  l'evoluzione dall'automobile,  intesa come pezzo di ferro capace di trasportarci, alla tecnologia aerospaziale ed aerodinamica dell'automobile di ultima generazione, è passata attraverso la formula uno, e quindi della ricerca di casa Ferrari, ma anche di casa Lamborghini, Bertone, Pininfarina, Abarth, etc. ... ed ancora, l'evoluzione della specie dalla macchina da scrivere ispirata al Vittoriano (il “pisciatoio di lusso”), alle più moderne macchine intelligenti, è passata attraverso la ricerca delle Olivetti, e quindi dei Di Benedetto, quindi ancora del capitale privato.

   E quindi l'investimento in ricerca ha prodotto in seguito grandi utili.
  Solo in edilizia tutto ciò non è avvenuto, anche se una enormità di capitali sono stati investiti nella crescita selvaggia delle città sotto la pressione demografica e la speculazione edilizia: da nessuna parte si producono cellule abitative carrozzate Bertone, perchè l'industria edile, con fare ottuso ed oscurantista, non ha mai investito in tal senso;
  mentre in campo automobilistico ogni accessorio viene integrato nella struttura della scocca in quanto il tutto è sottoposto ad un processo produttivo a progettazione integrale, in edilizia ogni accessorio viene aggiunto e posizionato in maniera episodica e casuale, e quindi con conseguenze antifunzionali ed antiestetiche: gli elettrodomestici sono appoggiati dovunque alla rinfusa, forse assemblati insieme o con soluzioni ad incasso, ma comunque sempre a-posteriori e post-progettati in aggiunta alla struttura;
  i mobili, i letti, i sanitari, i termosifoni, i condizionatori, sono sempre oggetti aggiunti; anche il televisore, che nelle automobili è ormai come il tom-tom incassato nel quadro comando, è aggiunto: solo ora, con l' LCD ultrapiatto, questo può apparire un quadro sul muro, ma comunque è aggiunto e appoggiato, e non integrato.

  Addirittura gli impianti vengono progettati a posteriori rispetto alla struttura principale, e ad essa poi vengono adattati, casomai sotto traccia, ma non fanno parte di una progettazione unitaria ed integrale.

  Ma anche fatti estetici e di spazio ergonomico: nelle automobili gli spigoli non sono spigoli, ma nervature curve, il tetto non è piano come invece in maniera categorica è piano il soffitto nella stragrande maggioranza delle abitazioni; i vetri sono curvi e sfumati, addirittura alcuni sono fotocromatici e fotosensibili, si muovono con il cenno di un dito su un pulsante, nelle automobili; in edilizia, rigorosamente trasparenti, rigorosamente piatti, rigorosamente rettangolari, da aprire a mano con una maniglia antidiluviana; le portiere hanno le cerniere a scomparsa, nelle automobili; nelle case, rigorosamente a vista, del tipo preistorico con tondino in alloggiamento cilindrico esterno.

  Ma il più grave è la non flessibilità degli spazi, che crescano e si modifichino a seconda delle diverse esigenze sopravvenute, delle diverse funzionalità tra giorno e notte, della diversa consistenza familiare;
   più grave è la non aggiungibilità degli spazi e delle funzioni;
  la non ripetibilità per una sana produzione industriale e di serie in grandi quantità.
  Un giorno facevo questi discorsi, ed un mio interlocutore mi disse: "meno male, altrimenti sarebbero tutte uguali, le abitazioni".
  Ed io replicai: "girati intorno, e dimmi quante macchine vedi, e se ne vedi una uguale all'altra; e dimmi invece se vedi abitazioni diverse da una sommatoria di cubi 4x4x3 nel migliore dei casi, o meglio, 3x3x3, tutte uguali".

    Continueremo questo ragionamento.
  Qui desidero solo sottolineare provocatoriamente che. per assurdo, anche la peggiore "speculazione edilizia", nonostante tutto, si potrebbe considerare una occasione mancata:

  aveva una carica ed un potenziale (l’enorme dimensione, creata dalla enorme pressione demografica, ormai esaurita e che forse non ci sarà mai più, almeno nel prossimo futuro) che non ha saputo o voluto sfruttare, (aggravandone l’aberrazione, il tutto con me consapevole e ben sapendo di stare a dire un’eresia, o, peggio, una bestemmia), come è purtroppo avvenuto anche con i tanti interventi di edilizia economica e popolare tipo 167, che erano accomunate dalla enorme dimensione di metri cubi di abitazioni gettate sul mercato.

venerdì 8 maggio 2015

6 - GRUPPO ARCHIGRAM – dalla megastruttura alla cellula

  Sempre negli anni 60, con la fusione di due studi (Peter Cook, Dennis Crompton e Warren Calk, da una parte; David Green, Ron Herron e Michael Weeb dall'altra) nacque l'Architettura Megastrutturale del Gruppo Archigram.

  La maglia strutturale del Gruppo si attestò sul quarantacinque gradi, con una orditura ortogonale posizionata in diagonale; l'Immaginario del Gruppo prevedeva sempre all'apice della maglia il posizionamento di una gru fissa, stanziale, che permettesse la continua trasformabilità dell'Habitat, continuamente "in fieri".

  Ho ritrovato questa immagine (la gru per la costante manutenzione e trasformazione dell'edificio) in tanti organismi abitativi e di uffici a Londra.



  Il gruppo Archigram è stato negli anni '60 noto per una visione della città e dell'habitat - per i tempi di allora - all'avanguardia, per una città da progettare come un unico organismo supertecnologico, ma senza sfociare nell'utopia o nella favola; 
  pur tuttavia, se anche abbiamo sostenuto che "la fantascienza  dell'altro ieri è la scienza di ieri" e "l'utopia di ieri è la filosofia di oggi", purtroppo il pensiero e la cultura urbanistica ed architettonica non sono state al passo con i tempi, e non hanno fatto frutto degli esperimenti e delle provocazioni di tanti Grandi poi passati nel dimenticatoio.



  Se inizialmente e fino alla metà degli anni Sessanta, Archigram si dedicò a progetti megastrutturali, tra cui i più importanti Plug-in City di Peter Cook e Walking City di Herron, entrambi del 1964, successivamente l’attenzione venne concentrata nella progettazione di “habitat portabili”, che dovevano “liberare” l’uomo dell’architettura stessa."

  Si ipotizzano micro spazi compressi, ad uovo, ma ricchi di proteine abitative, e potenzialmente assemblabili a grappolo, in contenitori a scala urbana: dal microcosmo al macrocosmo.







CELLULE RESIDENZIALI A FORMA ERGONOMICA

    E qui, continuando lungo le linee indicate dalle visioni da sogno (come direbbe Crozza mimando Briatore) proposte da Archigram, si vuole sperimentare un possibile assemblaggio di moduli, con una assimilazione onirica tra un modulo di un bancone per esposizione e vendita fotografato in un negozio di abbigliamento, ad un modulo ripetibile e montabile in una possibile città (tema grafico: “da un modulo di bancone alla città: un nuovo modo di concepire l’habitat umano; dall’impasto all’assemblaggio”).





  Involucri da carrozzeria di alto design (Pinifarina, Bertone? …): è un industrial-design che va oltre l’architettura (ormai confinata nella preistoria), con verniciature a forno, vetri fotosensibili fumé a scalare, curvi o bombati a seguire il disegno e la linea della carrozzeria, infissi a scomparsa.


  In questa immagine onirica appare la fine del cemento armato (e quindi del carpentiere e ferraiolo, e delle centrali di betonaggio, dell’imbianchino, dell’impiantista vecchia maniera): un’edilizia montata da personale in camice bianco, o meglio da robots con programma di montaggio diretto dal computer di bordo di un cantiere pulito e senza errori, con abbattuti i rischi di infortunio e di approssimazione.

martedì 21 aprile 2015

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

Sono un architetto pentito - cap. 5

5 – EMERGENZE URBANE: L’ OLIMPIADE DI ROMA

  Mentre le Expo’ planetarie sono state la vetrina di tante innovazioni tecnologiche nell’edilizia (soprattutto la smontabilità doveva essere la caratterisitica principale, data la funzione provvisoria dell’oggetto architettonico), e soprattutto nei suoi monumenti, le Olimpiadi sono state l’occasione per la riqualificazione urbana e territoriale delle città ospitanti, se non di tutto il paese.
  Facciamo un po’ di “revival” nostrano, tornando ai mitici anni ‘60.
  Le Olimpiadi del 1960 furono per la Capitale una grande occasione per riqualificarsi urbanisticamente (e contemporaneamente, come vedremo, per stravolgerne e ribaltare le prospettive ideologiche della scienza e della cultura urbanistica di allora, che erano alla base e struttura portante per il Piano Regolatore allora in fieri).
  Vi erano due ampie aree urbane, tutte e due nate nel ventennio e di impostazione architettonica  imperiale, eroica e fascista, già qualificate per l’immensità degli spazi e delle attrezzature sportive, nonché per la loro posizione topica: a nord il Foro Italico, fino a pochi anni prima Foro Mussolini, con ben tre stadi, (l’Olimpico, lo Stadio dei Marmi, il Flaminio nelle vicinanze), e con la sede del C.O.N.I., tempio sacro dello sport.


LO STADIO OLIMPICO foto d’epoca
  A sud l’EUR, quasi una moderna new-town alla estrema periferia, proiettata verso il mare, con le sue strutture già realizzate per una Expò Universale mai realizzata “causa guerra intervenuta”; quartiere  che venne strutturalmente incrementato a mezzo di un impianto di paesaggio urbano quale il laghetto artificiale (sede allora anche di fantasmagorici giochi d’acqua, di colori e di musica, impianto tecnico ormai in disuso, come spesso avviene non si sa perchè); il velodromo (anch’esso presto in disuso, ed ora distrutto per implosione causata, comprese tonnellate di eternit, da cui i processi per disastro colposo), gli impianti ginnici delle Tre fontane, ed il Palazzo dello Sport, (oggi Palalottomatica, melanconicamente in versione non più sportiva), posizionato su una collinetta di sfondo rispetto al lago, con una visione al limite dell’ufologico, da “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.


IL PALASPORT IN COSTRUZIONE

 Tra queste due grandi Emergenze urbane fu creato, interno alla città, un asse di collegamento veloce nord-sud, la via Olimpica, tutto ad ovest rispetto il centro storico. Ed in tal modo tale grande infrastruttura permise negli anni seguenti il traslarsi di tante attività direzionali, e di potere economico e politico, dal centro storico verso la qualificata periferia sud rappresentata dall’EUR.
  Tutto ciò era di fatto uno stravolgimento del tormentone di allora, di quanto cioè predicato da tanti Mostri sacri dell’Urbanistica, da Piccinato a Zevi, da Quaroni a Mario Fiorentino: l’Asse Attrezzato.
  Fin dagli anni cinquanta l’asse a est della città veniva indicato come la direttrice dominante per l’espansione delle Attività Direzionali di Roma.

  L’idea portava ad individuare nel P.R.G. (Piano Regolatore Generale) del 1962, definitivamente approvato nel ’65, una vasta area a est del centro storico destinata prevalentemente a funzioni direzionali e al terziario, quale Sistema Direzionale Orientale: e tale struttura portante della città, avrebbe dovuto qualificarla nei contenuti, e decongestionarla dal traffico a mezzo di una nuova forma di decentramento ad est.


PROGETTO PER L’ASSE ATTREZZATO DI ROMA 

  La via Olimpica, invece, offriva un asse di scorrimento veloce ad ovest del centro storico, e di congiunzione a sud con la “New Town” Eur, quasi novella città satellite della Capitale, destinata a diventare al più presto il vero e nuovo Centro Direzionale urbano e metropolitano, regionale e nazionale; e nemmeno la sua successiva continuazione e congiunzione con la Tangenziale Est, che la raccordava fino a S. Giovanni, ed in seguito, attraverso via Marco Polo e parte della Cristoforo Colombo, di nuovo fino all’Eur, mitigava lo spostamento di traffico ed attività ormai tendenti a spostarsi all’estremo sud della città, all’Eur verso il mare.
  D’altronde la Tangenziale Ovest, ben lungi dall’essere un Asse Attrezzato, risulta essere soltanto un mediocre tentativo di viabilità veloce, troppo spesso congestionata da un eccesso di traffico.
   E così, per “colpa” di una Olimpiade, finirono miseramente tutte le più ampie velleità Urbanistiche di quella cultura che ha fatto storia, sì, ma senza nulla realizzare:
  infatti, come di tante altre cose, di “Asse Attrezzato”, dopo tanto discutere e sognare, non se ne è più parlato.
  Ma di Villaggio Olimpico sì, perché lo abbiamo sempre sotto gli occhi, passando dal viadotto di Corso Francia: fu costruito negli anni ‘58 – 59 per alloggiare gli atleti olimpici, su progetto redatto da mostri sacri quali gli architetti Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco, e, dulcis in fundo, il grande Luigi Moretti le firme autorevoli ed il tema  sui generis hanno rivestito di leggenda un’organismo ricco di pulsazioni irrisolte: addirittura, riconosciuto come uno dei migliori quartieri di edilizia pubblica realizzati a Roma, il progetto del Villaggio Olimpico, vince nel 1961 il premio regionale IN/ARCH (!!!)

  L’hanno paragonato all’Unité d'Habitation di Marseille, realizzata da Le Corbusier nel lontano 1946 (!!!) (vedi capitolo 3):


  Villaggio Olimpico di Roma          

Unité d’habitation de marsille

  questa non era certo un “mostro di bellezza”, ma sicuramente era il “manifesto” delle più originali teorie urbanistiche ed architettoniche della ricostruzione; idee allora – nel 1946, cioè nell’immediato dopo guerra – rivoluzionarie e all’avanguardia, ma ormai obsolete nel 1958 ben dodici anni dopo, anche perché le idee espresse dall’Architettura Razionalista di Le Corbusier non hanno subito la dovuta evoluzione della specie nelle direzioni già insite nelle proposte dell’Architettura Razionalista, da questa suggerite e non solo in embrione.

  Vediamo quali erano tali intuizioni rivoluzionarie.

   1) nell’Unità di Abitazione di Marsiglia i 337 appartamenti, con semplice finzione di facciata, appaiono essere stati costruiti in serie e poi assemblati, a testimoniare l’idea di una casa intesa quale una “macchina per abitare”, (adeguandosi al periodo storico rivoluzionato dalla meccanizzazione e dalla proliferazione delle macchine), nella quale possono abitarvi fino a 1500 persone, un piccolo quartiere.
  Tali concetti, (l’assemblabilità e la trasformabilità, quindi una potenziale produzione in serie) non vengono in alcun modo sviluppati, anzi nel Villaggio Olimpico vengono solo “copiati” in una versione ancora soltanto di facciata.

  2) l’adozione nell’attacco a terra di un piano pilotis a Marsiglia suggeriva, nella discontinuità con il terreno, la continuità con funzioni sociali o commerciali, con percorsi attrezzati.  
  Nel Villaggio Olimpico rimane la mera discontinuità con il terreno, lasciando ad un facile processo di degrado questi spazi pubblici non utilizzati, (se addirittura non al rischio di aggressioni ed azioni malavitose negli ampi spazi senza limiti ottici).

   3) A Marsiglia l’arretramento dei pilastri rispetto al filo dei solai consente uno sviluppo della facciata indipendente dal resto dell’appartamento e da ritmi strutturali, e permette l’utilizzo di finestrature a nastro, capaci di scorrere a piacere lungo la parete, e di fornire un’illuminazione personalizzata.
  Nel Villaggio Olimpico invece, nonostante tale arretramento, il prospetto è ritmato in una sequenza a ripetizione che può ripetersi per chilometri senza soluzioni di continuità.

  4) Al settimo e ottavo piano, la cosa forse più rivoluzionaria a Marsiglia, sono presenti una parte di servizi urbani essenziali (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare il salto dimensionale tra il singolo edificio e la città: il primo viene proposto come semplice sottomultiplo della seconda.

  Il lastrico solare è trattato come un naturalistico Roof Garden (giardino tra le terrazze), rifinendo nel verde il paesaggio dello Sky-line (linea del cielo) del manufatto oggetto dell’intervento umano.       
    Tutto ciò tende a ridurre ai minimi termini la  distinzione tra urbanistica e architettura, tra città ed edificio, con un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa, intesa come cellula di un insieme, si estende via via all'edificio, al quartiere, alla città, all'intero ambiente costruito.

  A Roma, invece, siamo di fronte ad un piatto lastrico solare, che non è “portatore di servizi urbani”, e la cui unica funzione è coprire il fabbricato. In realtà con il Villaggio di Roma siamo quindi ben lontani dalla concretizzazione di quanto proclamato nel “manifesto razionalista” della Unité d’Habitation, ma siamo di fronte ad una brutta copia conforme di una cosa già di per sé non eccezionalmente bella (ma che comunque aveva al suo interno gli embrioni di eccezionali innovazioni, embrioni forse ancora oggi non sviluppati):

  peccato, poteva essere una grande occasione, ed invece siamo di fronte ad un’ennesima occasione mancata, se non proprio ad un “mostro architettonico”.

venerdì 17 aprile 2015

CAPITOLO 4 - Sono un architetto pentito

4 - ENTRARE NELLA STORIA... SI PUO'...
 
   In situazioni emergenti (ad esempio le Expò) Architetti ed Ingegneri fin dal lontano 1851 hanno creato delle pagine progettuali di alta tecnologia.
   Quindi pensare che una Edilizia Hi-tech possa esistere, si può...
  non è fantascienza, i presupposti per la fuoriuscita dell'Edilizia dalla Preistoria ci sono, le cognizioni tecniche pure, .... , ma la volontà di utilizzare l'hi-tec in produzione di massa, per migliorare l'habitat, renderlo organico e flessibile, riporoducibile, trasformabile, smontabile e rimontabile (quasi come un manufatto arredo dell'Ikea), quella volontà... no, ancora non c'è; anche se "nulla hosta" perchè tale volontà ci sia. 

  Vedi il Crystal Palace dell'Expò del 1.851 (!!!): a fine Fiera, fu smontato, e rimontato in altro sito con qualche aggiunta sostanziale ma con le medesime caratteristiche, come si vede nelle foto d'epoca qui riprodotte. 




   Come nell'Habitat di Moshe Safdie all'Expò di Montreal nel 1967:
  "Un esempio di architettura forse difficile da digerire al primo impatto, ma  flessibile, trasformabile, aggiungibile, decurtabile; un "organismo in fieri" con una tipologia di immagine che affonda le sue radici nella gasba algerina (era attuale ed emergente la Battaglia di Algeri, film del 66 di Gillo Pontecorvo sui dieci anni di lotta di liberazione portati avanti dal F.L.N. - Fronte Nazionale di Liberazione).




   Un'architettura veramente organica, pur nel cubismo di stampo razionalista delle sue forme, organica in quanto organismo come vivente nella sua adattabilità nel tempo e nello spazio alle esigenze degli abitanti  suoi fruitori.
  Le capsule appaiono applicate alla struttura, aggiunte per aggregazione, per successivo posizionamento, sottintendendo e suggerendo una potenziale flessibilità, accrescibilità e smontabilità, pur non avendone le vere caratteristiche tecniche, in quanto ancora l’evoluzione tecnologica ancora non lo permetteva (ma vi erano vicini, soprattutto morfologicamente). 

  Come nel Padiglione Italiano all'Expò di Osaka, nel 1970, dello studio Valle, dove viene completamente superato il concetto base di ogni struttura, fatto di pilastri e travi, tamponature e solai, tutti rigorosamente perpendicolari, verticali ed orizzontali.  
  Erano anni di grande ricerca. Era la vittoria del "trenta gradi" sull'angolo retto.
  Una vittoria che doveva avvenire, nel mondo del 68 quella sensazione era nell'aria, il “trenta-sessanta” doveva nascere, (come il Messia doveva nascere, chiunque esso potesse essere, nell'anno zero): lo studio Valle era all'avanguardia per una progettazione rivoluzionaria.
  Nel 1972 ospitava al suo interno una compagine dello studio Tange, il più noto architetto giapponese (ed io partecipai per quello studio alla stesura della Relazione Tecnica per il piano particolareggiato di Librino, quartiere satellite di Catania).




    In edilizia la storia è ancora fantascienza, e la fantascienza  dell'altro ieri è la scienza di ieri. L'utopia di ieri è la filosofia di oggi.

  E' di un anno prima rispetto ad Osaka, del 1969, il Progetto/esame (architettura degli interni) di un Cinema a Via Cola di Rienzo redatto dal sottoscritto con altri tre colleghi studenti: la visione preveggente di un passato prossimo è la descrizione, secondo l'immaginario collettivo, della realtà attuale.


   Ma quello che progettavamo trentacinque anni fa, negli anni 60, non era il frutto di pura fantasia onirica, o di elucubrazioni psichedeliche.

  Era frutto di meditazione tecnica, di innovazioni di ingegneria strutturale, di architettura pensata nello spazio e nel "fieri" del tempo; e continuiamo a precisare che,  in contemporanea, persone che non si conoscevano, che non avevano modo di attingere idee ed immagini dall'altro, di diversa leva ed estrazione (l'arch. Valle, già allora affermato ai più alti livelli, ed il nostro gruppo di studenti di Architettura, da poco nato e formato da allora ragazzi), progettavano, per organismi diversi e dislocati agli antipodi del mondo:


 volumi e  strutture con incredibili analogie, tutte apparentabili ad une edilizia che poteva apparire di fantascienza:
   ma fantascienza non era.
  Il padiglione italiano all'expò di Osaka, ed il nostro cinema progettato per un lotto in via Cola di Rienzo a Roma, sono apparentati da una simile tipologia di pensiero.

 PADIGLIONE ITALIANO A OSAKA


CINEMA IN VIA COLA DI RIENZO

   Ma torniamo alle Expò, ed andiamo indietro nel tempo.

   1889 - PARIGI - TORRE EIFFEL
   E' un inno alla tecnica dell'acciaio, ma con la rinuncia al concetto di "funzione", se non quella di "monumento" irripetibile.
  Una precisazione tecnica, che forse ne diminuisce la caratteristica di capolavoro universale di ingegneria (ma questa mia è forse una deformazione professionale da architetto): i quattro archi di ingresso sopra la base, non sono archi "portanti", come vorrebbero apparire all'occhio del visitatore inesperto; anzi, sono archi "portati" dai piloni in diagonale retta, facendolo diventare un "falso strutturale" e quindi anche un "falso ideologico di progettazione"; il tutto senza togliere nulla alla maestosità dell'opera.
  Nella foto d’epoca si vede la vera struttura portante in costruzione, e non ci sono ancora gli archi.