mercoledì 1 aprile 2015


Inizia la pubblicazione on-line, con il primo capitolo, del libro pubblicato nella collana "ilmiolibro" della edizione Feltrinelli con titolo "Sono un architetto pentito"
Buona lettura


1 – SONO UN ARCHITETTO PENTITO

   

 
   Sono un architetto pentito.
  Non un collaborazionista,  un terrorista in disarmo, un collaboratore di giustizia.
  Tutto va a ricondursi alla mia storia, che qui racconterò un po’ per volta, navigando nei meandri dei tempi, forse annoiando - ma non credo.

  Mi accorsi che qualcosa non andava in edilizia nel 1973, al mio primo cantiere come Direttore Lavori.
  Era il complesso a Cerenova (Cerveteri, RM) denominato Ippocampo di Mare
  Terminate le progettazioni esecutive delle prime quattro isole, partì il cantiere; i rustici delle case crescevano come funghi sotto i miei occhi: ed io, a ventisei anni, non credevo ai miei occhi.  
una normale croce. 
  Dalla foto aerea del cantiere in costruzione, (in primo piano il Circolo Sportivo Ippocampo - ora Club Europa), oltre la fila di ville a schiera, si possono notare le ville quadrifamiliari, per le quali, divagando, ricordo un aneddoto curioso.


   Il progetto articolava la pianta quadrata in maniera asimmetrica, per cui al centro, dall'alto, si vedeva una croce uncinata, in luogo di una normale croce. 
  Vi è da aggiungere che la compagine sociale della Ditta Costruttrice era di matrice tedesca, ed amministrata da un tedesco.
  Una nota Agenzia di Stampa uscì a nostro riguardo con un articolo al fulmicotone, vaneggiando l'invasione di una banda di nazisti, che volevano in maniera criptica e con messaggi subliminali – appunto la croce uncinata della visione aerea - inneggiare al nazismo (senza sapere che il progetto era redatto e firmato da me, notoriamente su chiare posizioni politiche antifasciste, e che certo non volevo inviare alcun messaggio nazi). 


 Terminato l'assetto strutturale delle prime 200 unità, vedevo il progetto come realizzato, lo ritenevo una mia pupilla.

Ma poi iniziarono gli impiantisti!!!

  Elettricisti ed idraulici segnarono sui muri con le bombolette le tracce da effettuare, ed andarono via.
  E sotto i miei occhi allucinati, manovali energumeni, armati di mazzette e scalpelli che al mio occhio apparivano a mò di macete, imbracciando martelli pneumatici che mi apparivano mitra da guerre stellari, colpivano distruggendo quanto fino allora eseguito:                                                                                                                   si creò una montagna di calcinacci, aprendo ferite in murature e tramezzi appena fatti, devastando senza alcun rispetto l'opera altrui appena compiuta.  
     
No, così non andava!!!

  All'epoca – i primi anni 70 - in altre branchie industriali gli impianti (ma non solo gli impianti, altrimenti i nostri ragionamenti si ridurrebbero a sterili confini di domotica, di cibernetica, di casa ed edifici intelligenti, e già non sarebbero sterili…) erano già tecnologicamente avanzati (esistevano già circuiti stampati, schemi di montaggio, schermature integrate, pannelli di controllo, automazioni, elettrovalvole, telecomandi);  ma non ci riferiamo all'industria spaziale, o alla nascente informatica, che allora poteva apparire un'arte astrale al limite tra alchimia e paranormale; 
  ma a tutto ciò che di biecamente industriale ci circonda: l'automobile, l’assemblato hi-fi, il semplice elettrodomestico;  invece, in edilizia, no: per gli impianti elettrici esisteva la semplice piattina (!!!), o il filtubo (che aveva da poco sostituito i fili torti nella canapa, e che oggi, con grande sforzo di ingegno e di tecnica, è stato sostituito con corrugato e cavi unipolari gommati sfilabili), per quelli idrici il rubinetto a manovella, i tubi di ferro destinati ad arrugginire.
  Cominciai a frequentare il cantiere ed era un periodo pieno di ideali operaisti, di democrazia dal basso, di potere ai lavoratori.
   E così mi cominciai a sorprendere su incredibili “diversità antropologiche” della classe operaia.
   Un giorno, a mezzogiorno meno cinque, stavo parlando con un carpentiere, che mi ascoltava appoggiato alla sua pala; era senza orologio.
  All’improvviso, mentre parlavo, fa cadere a terra la pala, e, con precisione cronometrica allo scadere delle ore dodici, senza profferire parola se ne va girandomi le spalle, lasciandomi in asso come un deficiente: era scoccata la fatidica “ora di pranzo”, e vistosamente andava ad esercitare i suoi diritti: lui il cronometro ce l’aveva nel cervello.
   
   Cito aneddoti simpatici, di vita vissuta.
  Parlando in cantiere di un metodo di lavoro per lui troppo innovativi, l’operaio mi ribadiva di rimando: “e no… questa è la prassa!!!”
  In altra occasione timidamente rimproveravo un operaio per un errore commesso: “e no, architè… nun me pò amputà pure questo”.
 Un altro operaio, che voleva apparire più evoluto, in risposta a mie argomentazioni circa una migliore funzionalità di una lavorazione eseguita con un metodo diverso dal solito che a lui non piaceva, se ne usciva: “Sì architè… e la stetica?”.
  Ed ancora un altro aneddoto:“Tu dove abiti?” cercando di familiarizzare;
“al Nomentano, e lei?”
“no, io abito agli antipodi”
“architè… e ndo’ stà sto quartiere?” 
 Cominciai a pensare, pur rimanendo ideologicamente operaista convinto, che non era ancora il tempo per il “potere operaio”: e che ci volevano ancora anni luce nell’evoluzione della specie. 


  Morale:  Non mi permisi più di arrivare in cantiere a cavallo dell’ora di pranzo.

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